Cultura

Io, parroco in Darfur. “Chi pensa ai cristiani?”

Padre Ssemakula Yosefu Balikuddembe si sfoga: "Spiace dirlo, ma nella Chiesa di Roma l’indifferenza per noi è stata enorme".

di Joshua Massarenti

Dal nostro inviato a Nyala

Sembra una casa come tante altre. Con una strada sterrata e polvere in abbondanza che ti conducono a un portone in ferro battuto, appeso tra muri di mattone consumati dall?usura di un tempo che qui non passa mai. Varcata la soglia, una fila di uomini svaccati lungo una parete laterale ti salutano con sorrisi quasi svogliati: «Salam Aleikum!». «Aleikum Salam!» ti tocca rispondere sotto un sole impietoso che rende ogni saluto di circostanza. Il cortile è vuoto, l?ambiente spartano. Ma con la coda dell?occhio, cominci a intuire che non stai in un posto come gli altri. Sulla parete frontale, una cappelletta accoglie una Madonna e un Gesù bambino, due figure religiose non proprio preponderanti da queste parti.
Già, perché a Nyala chi comanda è Allah. Lo sa bene il padre comboniano Ssemakula Yosefu Balikuddembe, parroco ugandese di Nyala, in Darfur da quasi vent?anni. «La vede questa struttura? Bene, questa è la nostra chiesa. L?abbiamo costruita lì per non dare troppo nell?occhio. Qui i simboli della cristianità vanno nascosti. Lo impongono le autorità politiche».
Vita: Una vita cristiana in minoranza quindi. Che vita è in Sudan?
Balikuddembe: Dipende dai luoghi. Al contrario del Sud Sudan, dove sono maggioritari, in Darfur i cristiani si sentono un po? schiacciati dal mondo musulmano. Certo, non c?è ostilità nei nostri confronti, ma la vita è durissima.
Vita: Quanti siete?
Balikuddembe: Siamo circa 100mila cristiani, in stragrande maggioranza cattolici, amministrati da tre parrocchie. Nel Sud Darfur, quella di Nyala, costruita nel 1969, ne conta 40mila, al pari della parrocchia di Daen. Poi altri 20mila a el Fasher, nel Nord Darfur.
Vita: Chi compone la comunità?
Balikuddembe: I cristiani sono quasi tutti dinka, un?etnia di guerrieri originari di una regione frontaliera con il Sud Darfur, il Bar el Ghazal, nel Sudan meridionale. E proprio dalla guerra del Sud Sudan i dinka sono fuggiti a metà degli anni 80 per trovare pace in Darfur.
Vita: Insomma, i primi profughi del Darfur?
Balikuddembe: Sì, hanno vissuto nei campi profughi in condizioni spaventose, assistiti unicamente dal World Food Program.
Vita: E la Chiesa?
Balikuddembe: Spiace, ma a Roma l?indifferenza è stata enorme. All?epoca ero parroco a el Fasher e d?aiuti ne ho visti pochi.
Vita: Come vi siete organizzati?
Balikuddembe: Per uscire dalla miseria, i dinka si sono divisi e andati in ordine sparso nelle aree di Nyala e di el Fasher, ogni volta unendosi ai villaggi arabi e africani. A quel punto le nostre parrocchie sono state costrette a dividersi tra attività di ong e attività pastorali. Per contrastare malattie come la malaria e la tbc, abbiamo costruito un dispensario a Nyala dotandoci di una clinica mobile. Ma da sempre l?estensione infinta dei territori parrocchiali e la scarsità di risorse ci hanno reso la vita molto difficile. Nel Darfur ci sono 120 centri religiosi, alcuni dei quali raggiungibili solo dopo 15 ore di macchina. Prima della guerra, era necessario visitare i centri due volte l?anno. Ma a causa della stagione delle piogge, avevamo solo sei mesi a disposizione. Purtroppo, ho visto morire villaggi interi.
Vita: E oggi la guerra civile?
Balikuddembe: Mi creda, i cristiani sono tra i più colpiti da questa guerra. Questo perché fino al 2003 i dinka hanno lavorato e convissuto con entrambe le comunità, arabe e africane. Con la conseguenza di ritrovarsi tra i fuochi dei ribelli e degli arabi.
Vita: Quale assistenza umanitaria viene fornita?
Balikuddembe: Come ieri, prevale l?indifferenza, ma oggi ci si mette pure la paura. Purtroppo le agenzie Onu e le ong presenti in Darfur non stanno assistendo i cristiani come dovrebbero, perché non vogliono essere accusate o sospettate di proselitismo. Tra i nuovi profughi gli unici a godere di un?assistenza umanitaria vera sono gli africani, e poi gli arabi civili.
Vita: E questa volta Roma come risponde?
Balikuddembe: Fino al 2004 la Santa Infanzia ha fornito contributi finanziari sufficienti per consentirci di portare avanti un minimo di attività. Ma da allora i finanziamenti sono stati dimezzati. Per intenderci, da 80mila dollari siamo passati a 40mila. Una miseria, compensata in minima parte dagli aiuti consegnati dalla Cooperazione italiana.
Vita: Contributi di che tipo?
Balikuddembe: Sono stati riabilitati il tetto della chiesa e un centro di formazione per le donne gestito dalle Suore della Carità. Infine, Barbara Contini ha supportato una scuola diretta da padri Comboniani fornendo arredi e materiale scolastico. È stato un ottimo lavoro, ma rimane una goccia in un deserto.

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