Cultura

Afghanistan scuola senza veli

Si chiama Setara ed era stata trasformata in una stalla dai talebani. Oggi è una scuola anche grazie al sostegno di Intersos. La frequentano 2.600 ragazze.

di Paolo Manzo

Dal nostro inviato a Maimana, Afghanistan del Nord

Tra gli amori degli afghani ci sono due elementi fondamentali che, chiunque faccia un giro da quelle parti, coglie: la poesia e i muri. La poesia serve per immaginarsi un mondo che 30 anni di guerra hanno distrutto ed è la materia più amata dalle studentesse della Setara, scuola femminile di Maimana, capoluogo della provincia del Faryab, nord dell?Afghanistan. Ho avuto la fortuna di poter entrare nella Setara – questo il nome dell?istituto – grazie alla mediazione di Intersos, ong che in questa provincia ha portato acqua a 45mila persone. «La poesia è il nostro strumento per sognare», spiega Manija, che poi mi confessa: «Voglio diventare dottore per aiutare gli altri abitanti della mia città». Poesia per sognare e per valicare quei muri, che sono la caratteristica principale dell?architettura di questo Paese e di questa città di 120mila abitanti. Appena possono, infatti, gli afghani costruiscono muri di protezione e la Setara non fa eccezione. La barriera che la cinge è alta tre metri e mezzo e segna il confine invalicabile oltre il quale le ragazze, che dentro sorridono e mostrano le loro treccine, sono costrette a indossare il burqa, blu o bianco a seconda dell?abbinamento che decidono di fare con i piedi, l?unica parte del loro corpo che possono scoprire al di là del muro. L?unico modo di esprimere se stesse e, forse per questo, le scarpe con tacco alto, coperte di lustrini e sgargianti qui vanno a ruba, come imperversano le unghie dei piedi pittate di rosso, blu o verde. Grazie alla mediazione di Michele Trainiti, ingegnere idraulico che da un anno segue e dirige i lavori di Intersos per portare acqua alle popolazioni dei tanti villaggi che ricoprono le montagne desertiche di questa zona sperduta, entro nella Setara. E lo faccio con non poca emozione, dato che qui tutte le donne escono dalla propria casa – o, meglio, dalla parte della casa riservata loro – e dalla scuola con il burqa. Tutte, nessuna esclusa. I motivi li spiega Hosna, insegnante di matematica, geografia e disegno alla Setara: «La tradizione innanzitutto, ma, soprattutto, il timore di un futuro ritorno dei talebani, che domani potrebbero fare rappresaglie contro le famiglie delle donne che oggi decidessero di girare senza». Tristezza. L?incubo talebano è presente e temuto dalle studentesse di Maimana, nonostante la preside dell?altra scuola, quella intestata a Maria Grazia Cutuli, spieghi a Vita che lei non ha paura degli ?studenti di teologia? e che non ha problemi a girare a volto ?sburqato?. L?arcano me lo svela uno dei venditori del bazaar locale, mix ineguagliabile di colori sgargianti, polvere e odori forti: «La preside della Cutuli non ha paura dei talebani, né di un loro eventuale ritorno per un motivo molto semplice: suo fratello era un commander, un comandante talebano». La cosa non deve stupire perché, da queste parti, le donne che hanno assunto posizioni di potere e che sono considerate giustamente le paladine di una prima, seppur timida, emancipazione, hanno tutte uomini forti alle spalle. Rona Shirzai, per esempio, è la direttrice di Radio Quyaush (emittente locale rivoluzionaria in quanto le giornaliste sono tutte donne) ed è di etnia pashtun (la stessa dei talebani) in un territorio all?85% popolato da uzbeki ma, soprattutto, è sposata con un uomo che si distingue particolarmente nel settore della produzione di oppio del Faryab. All?entrata della Setara vengo circondato da un nugolo di ragazzine e ragazzini (ci sono circa 200 maschietti che fanno qui i primi due anni delle elementari) che, sorridenti, mi investono con una miriade di «hello Sir», cui rispondo con il più canonico dei «salam aleikum». La pronuncia non dev?essere un granché, se è vero che il mio saluto in lingua dari è accolto da risate a crepapelle da questi angioletti dalla faccia sporca che mi circondano in cerca di qualche caramella che, purtroppo, non ho con me. Per farsi strada è sufficiente brandire la macchina fotografica che, soprattutto per le ragazzine in età adolescenziale, ha lo stesso effetto di un kalashnikov AK-47: fuga immediata. Dalle finestre delle aule circostanti, appena si rendono conto dell?entrata del giornalista straniero, centinaia di volti di giovani donne afghane si affacciano, curiose e sorridenti. Sono tutte studentesse d?età compresa tra i 14 e i 20 anni che, in molti casi, stanno recuperando gli anni persi durante il regime talebano, quando alle ragazze era severamente vietato imparare a leggere e scrivere, andare a scuola, imparare un mestiere, uscire dalla zona della casa riservata alle donne. Surya Ahanly è la preside della Setara: uzbeka di nome e per tratti somatici, volto cinto da un velo colorato nonché candidata nelle recenti elezioni parlamentari nel partito di Dostun, uno dei tanti ?signori della guerra? che oggi siede al governo ma che ieri si è macchiato di crimini efferati. Surya mi accoglie con un appello: «Intersos sta facendo tanto per questa scuola, ma tanto resta da fare. Perché non lanciamo una raccolta fondi dalle pagine del suo giornale per aiutare le studentesse di Maimana a istruirsi in un ambiente adeguato?». Le spiego che per cominciare si potrebbe instaurare uno scambio culturale tra le ragazze della Setara e le loro pari età italiane, affinché ogni alunna afghana abbia una pen-friend italiana, lingua per comunicare l?inglese. Controproposta accolta entusiasticamente nel salone insegnanti, dove le docenti – tutte donne meno i due insegnanti di Corano che, per legge, debbono essere uomini – mi ricevono con l?immancabile caj, il the. Anno di nascita… 1322 La Setara è stata fondata nell?anno 1322, secondo il calendario che usano in Afghanistan come in tutti i Paesi musulmani, anno che corrisponde al nostro 1943. Il massimo splendore l?ha vissuto durante il regno di Zahir Shah, costretto poi all?esilio a Roma, quando nel 1978 scoppiò la rivoluzione che portò al potere Najibullah (o Naji, come lo chiamano i suoi estimatori), appoggiato dai sovietici che invasero il Paese l?anno dopo. A quell?epoca questa scuola femminile ospitava oltre 4mila bambine e ragazze tra i 6 e i 19 anni, oggi il loro numero è sceso a 2.600. Ma il trend è nuovamente in crescita dopo il medioevo talebano, quando asini, cammelli e capre scorrazzavano tra i banchi e nelle aule che oggi accolgono il volto sorridente e gli occhi vispi e nerissimi di Fajma (18 anni, da grande vuole fare la giudice), di Sudoba (20, dottoressa nei suoi sogni), di Manija (19 anni, un futuro da insegnante) e di tante altre. L?emergenza invernale «Il grande problema è che abbiamo l?inverno alle porte», spiega Surya mentre mi fa vedere la parte delle aule riservate ai bambini under 10: dire fatiscente è poco, e gli spifferi che passano attraverso le crepe e i buchi dei muri spesso causati dalle granate con cui mujaheddin e talebani si sono divertiti a ?restaurare? l?edificio negli anni 90, sono già ora freddini? «Abbiamo bisogno di rifare i soffitti: quando nevica entra l?acqua. Abbiamo bisogno di asfaltare almeno una parte del cortile perché la polvere alzata dal vento entra nelle aule, spesso senza vetri, e non fa respirare. E poi vorremmo un computer, per insegnare alle nostre ragazze cosa sia Internet e come si invia un?e-mail». Tra me e me penso che sarebbero sufficienti un paio di istituti italiani che riescano a convincere i loro studenti a donare un euro per la Setara per risolvere tutti i problemi di Surya che, tra l?altro, è pronipote del più grande poeta afghano del Faryab. Purtroppo non ha lasciato opere scritte, essendo qui la cultura una tradizione tramandata solo oralmente. Quando entro nella classe d?inglese dell?ultimo anno per spiegare da dove vengo e farmi spiegare da loro come vivano e dove vogliano andare quando termineranno gli studi (12 anni in tutto), colpisce la dolcezza e la disciplina con cui mi accolgono: tutte con il velo bianco – che non violenta il viso come la grata del burqa-, tutte sorridenti, tutte pronte a scattare in piedi per il «salam aleikum» di rito all?entrata mia e dell?autorità di questa sorta di gineceo dell?istruzione, ovvero la preside. «La scuola chiude da dicembre sino a marzo, causa neve. Ma il freddo comincia a farsi sentire da fine ottobre. Inoltre, a causa delle poche aule agibili siamo costrette a fare tre turni al giorno: i più piccini al mattino presto, sino alle 10,30. Poi le più grandi, e nel primo pomeriggio quelle di età compresa tra i 10 e i 14 anni», spiega Laila, insegnante di geografia, matematica e inglese, volto scavato da mille sofferenze patite durante il regime talebano ma occhio ancora vispo e roteante. Il messaggio che mi lascia è un inno alla vita: «I talebani ci hanno picchiato, torturato, umiliato. Ma non ucciso». Scrivete, scrivete Intersos, la ong diretta da Nino Sergi, sta aiutando le scuole di Maimana a risorgere, e sarebbe bello che anche gli studenti italiani, femmine e maschi, dessero un contributo. Ne parlo alle ragazze in classe, dove inizio a spiegare qualcosa dell?Italia in mezzo agli sguardi stupiti e curiosi e indagatori di queste 20enni che non tirano un sospiro per non perdere una parola. L?idea di scrivere lettere, possibilmente in inglese (in dari o in uzbeko, no, please…) da far giungere ai loro futuri amici di penna italiani è accolta con entusiasmo. Spero funzioni, anche perché sono il primo giornalista italiano che passa da queste parti – prima di me solo un collega scandinavo, venuto a indagare sul fenomeno dei body builder afghani che, al posto dei bilancieri, per aumentare il peso da sollevare usano pezzi di carri armati distrutti di Najibullah o dei talebani – e mi piacerebbe dare una mano affinché gli studenti italiani capiscano che, al di là di quanto si ascolta dalle nostre reti televisive, l?Afghanistan è anche altro. Curiosità, bellezza, dolcezza, donne: non solo talebani e AK-47. La Setara è un buon inizio per iniziare questo viaggio nell??altro Afghanistan?. Che ho visto solo per una decina di giorni, ma che si è subito preso una parte del mio cuore.

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