Cultura
Chi c’è in fondo al barile
Il prezzo sopra i 70 dollari rischia di creare terremoti sociali nelle economie più fragili. Ecco quanto sta costando la bolletta petrolifera ai Paesi poveri
«Ogni volta che vedo un adulto in bicicletta penso che per la razza umana ci sia ancora speranza», scrisse il romanziere inglese Herbert George Wells, considerato il precursore della letteratura fantascientifica. E in effetti, a pensarci bene, una bici consuma meno energia di quella che serve a un?automobile per tenere i fari accesi, proteggendo l?organismo da cardiopatie, obesità e stress. Sta di fatto che il nostro povero mondo ha deciso di pedalare in ben altro modo, utilizzando una sostanza nera, viscosa e spessa chiamata petrolio, capace di condizionare l?intera economia mondiale. Oggi tutto, lo si voglia o no, dipende dalle condizioni di salute dell?industria estrattiva del cosiddetto ?oro nero?; basta ad esempio che si verifichi un evento nefasto come l?uragano Katrina per mettere a soqquadro l?esistenza dei comuni mortali; e in gioco non sono soltanto le popolazioni sinistrate del Mississippi o della Louisiana, ma anche il destino di chi vive dalla parte opposta del globo.
E sì, perché circa il 25% dell?intera produzione di greggio e gas naturale degli Stati Uniti è concentrata nel Golfo del Messico e, vista l?emergenza, le aziende del settore energetico (Chevron, Exxon, BP e Royal Dutch) hanno pensato bene d?evacuare i loro impianti. E allora i futures sul greggio quotati al New York Mercantile Exchange (Nymex) sono schizzati oltre i 70 dollari al barile.
L?enigma ambientale
Le previsioni non sono affatto confortanti. Il prezzo dell?oro nero potrebbe continuare a salire – c?è già chi dice fino a 100 dollari al barile – penalizzando le popolazioni del Sud del mondo. Già l?anno scorso Manfred Konukiewitz, ministro tedesco per la Cooperazione e sviluppo, stigmatizzò che i Paesi in via di sviluppo avevano una bolletta energetica pari a 60 miliardi di dollari a fronte di un ammontare complessivo di aiuti allo sviluppo che si aggirava sui 50 miliardi. Questo significa che oggi la maggior parte dei Paesi poveri non è in grado di mantenere un minimo di sostenibilità energetica, a meno che non s?indebiti ulteriormente. L?importazione dei prodotti petroliferi infatti costituisce una delle maggiori voci della bilancia dei pagamenti e quindi il suo prezzo influisce sensibilmente sull?evoluzione e sullo stato delle economie nazionali. A questo vanno ad aggiungersi, soprattutto nel Sud del mondo, le solite carenze in termini di gestione manageriale e commerciale delle imprese industriali.
Qualcuno potrebbe obiettare che, come nel caso dell?Africa, il petrolio non manchi, ma anzi sia presente in quantità notevole lungo la dorsale del Golfo di Guinea e in altre zone del Continente. In questi casi, purtroppo, le tecnologie e i capitali investiti non appartengono alle popolazione locali. Secondo il Cefod – Centre studi per la formazione e lo sviluppo patrocinato dai gesuiti a N?Djamena, la gestione iniqua dei contratti di lavoro e dell?ambiente, l?inflazione crescente, la mancanza di competenze, nonché l?esclusione dei poveri da ogni forma di partecipazione compromettono seriamente lo sviluppo in Ciad e in altre parti dell?Africa. In effetti, in un contesto di corruzione endemica e redditi incerti, i boom petroliferi di Paesi come la Nigeria o la Guinea Equatoriale sono accompagnati spesso dalla perdita del controllo sulla spesa pubblica. Poiché non c?è trasparenza nella gestione delle rendite da petrolio, si assiste alla sporulazione di budget che non stanno in cielo e in terra. Ne risultano instabilità nei prezzi e crescenti deficit di bilancio. Perciò, anche se il prezzo del greggio sale, i conti pubblici sono caratterizzati da un?inflazione a due cifre.
Il caso della Norvegia
Secondo Ian Gary e Terry Lynn Karl, autori di Bottom of the Barrel: Africa?s Oil Boom and the Poor (Catholic Relief Services, 2003) non bisogna però fare di tutte le erbe un fascio. La Norvegia, ad esempio, ha utilizzato i benefici petroliferi del Mare del Nord guadagnandosi il primo posto nel Programma di sviluppo delle Nazioni Unite. Il Paese, dunque, dove la gente vive meglio, è un Paese esportatore di petrolio. Questo vuol dire che i problemi relativi allo sviluppo delineati finora non dipendono dalla risorsa in sé, ma dalla politica energetica. Il fatto di determinare se mai i poveri beneficeranno, nel lungo periodo, della risorsa petrolio, deriva da come le rendite sono raccolte, quale percentuale rimane all?interno del sistema produttivo nazionale.
Se i governi del Sud del mondo riusciranno a coglierne i frutti a lungo termine, alla fine anche questo dipenderà dalla qualità della politica globale. Se si danno i giusti incentivi per fare giuste scelte politiche, i profitti possono diventare ?oro nero?invece di ?escrementi del diavolo?, come le definì Juan Pablo Alfonzo, il fondatore dell?organizzazione dei Paesi esportatori di petrolio.
Rimane poi aperta un?altra questione che non può essere sottovalutata. Se da una parte è vero che negli anni 70 molti studiosi davano per imminente l?esaurimento dei giacimenti entro il primo decennio del nuovo secolo, è vero anche che nel 2005 la domanda è ancora inferiore all?offerta di petrolio; il greggio però è una fonte esauribile. Ecco perché s?impone un maggiore impegno da parte dei governi nella ricerca sulle fonti rinnovabili.
Per carità, nessuno intende mettere in discussione il principio secondo cui la chiave dello sviluppo, nel bene o nel male, è rappresentata dalla disponibilità d?energia a basso costo e che tale disponibilità oggi è resa possibile solo ricorrendo alle fonti tradizionali. Ma questo non esclude che in futuro le cose debbano o possano mutare. A questo riguardo l?Unione europea non può certo rimanere alla finestra. Tanto più che il caro-petrolio sta rafforzando i fautori del nucleare: una posizione controversa, non foss?altro perché solleva l?annosa questione dello stoccaggio delle scorie.
Tra parentesi, se è vero che esiste una normativa di Bruxelles che vieta l?esportazione di rifiuti pericolosi dalla Ue verso gli oltre cento Paesi firmatari della Convenzione di Lomé, occorre tenere alta la guardia perché i Paesi poveri non diventino la ?discarica? del mondo industrializzato. Una cosa è certa: al di là di ogni valutazione e congettura, la questione energetica esige lungimiranza da parte della classe politica internazionale, essendo in gioco il destino comune dei popoli.
La parola dell’esperto
Il boom dell’oro nero è un boom di instabilità
«Da agosto il caro benzina spinge verso l?alto i costi di trasporto, con la conseguenza di far crescere i prezzi delle derrate alimentari. In Africa, si utilizzano mezzi di trasporto obsoleti che consumano molta più benzina rispetto a quelli europei». Chi parla è Jean-Pierre Favennec, specialista in questioni geostrategiche legate al petrolio. Da alcuni anni, la sua attenzione segue le rotte dell?oro nero africano. Che tipo di strategie hanno adottato i governi africani per contrastare il caro petrolio? «C?è chi aumenta il prezzo alla pompa, cosa che crea non pochi malumori tra i cittadini. E chi, invece, decide di stanziare soldi pubblici per tenere basse le tariffe dei prodotti di consumazione. In quel caso, si suscita l?irritazione di Banca mondiale e Fondo monetario internazionale, molto contrari a una gestione pubblica incontrollata». E i Paesi produttori? «Questi Paesi», spiega Favennec, « sono spesso afflitti da una corruzione dilagante e da un?incapacità di redistribuzione sociale delle ricchezze nazionali ottenute con le tasse inflitte alle multinazionali straniere. A trarre profitto sono sempre le élite e i governanti». E quindi? «Quindi c?è da essere preoccupati perché in Africa le crisi petrolifere scatenano gravi instabilità sociali che sfociano implacabilmente in colpi di Stato. La Nigeria ne è un perfetto esempio».
Il caso della Costa d’Avorio
Caro trasporto: il latte sale del 30%
Ora andatelo a spiegare agli ivoriani che le riserve mondiali sono in via di esaurimento, che Stati Uniti, Cina e India consumano come spugne, e che Katrina ha messo i piedi nel posto sbagliato. «No, un barile a 70 dollari, non ci voleva proprio. Siamo già saturi con una guerra civile che impeversa da tre anni e un?economia al tappeto». Al pari dei suoi concittadini, Raymond Nchonimba, direttore del bimestrale La lettre diplomatique, è rassegnato. Per far fronte alla crisi petrolifera, il regime del presidente Laurent Gbagbo si è visto costretto a rialzare per ben due volte il prezzo della benzina. Tradotto in cifre significa che nel giro di sei mesi, il costo di un litro di super è passato da 580 franchi (0,80 euro) agli attuali 630, cioè un euro. Aumentando il prezzo del carburante, aumentano i costi di trasporto. Con effetti devastanti. Nei mercati popolari di Abidjan, il litro di latte concentrato è aumentato del 30%, schizzando a 3,20 euro, mentre per un chilo di patate, consumatissime in Costa d?Avorio, è necessario sborsare 0,60 euro contro 0,46 di alcuni mesi fa. Agli ivoriani, la spesa quotidiana costa in media 4,50 euro in più rispetto al passato. Commercianti e trasportatori hanno chiesto a Gbagbo di intervenire contro il caro benzina. Ad esempio destinando parte del petrolio ivoriano esportato al consumo interno. Ma per Gbagbo è fuori questione. Palla al centro.
Il caso della Nigeria
Paradosso: produce e… Importa
Nessuno ti regala niente, noi sì
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