Economia

Cooperative, fuori dai recinti

Inchiesta. Così il caso Unipol cambia le prospettive dell'economia partecipata

di Francesco Maggio

Rappresentano il 7% del Pil italiano. Ora con la conquista di Bnl lanciano una sfida economica e industriale. Ma sino a che punto il sistema potrà crescere? E come potrà restare fedele ai suoi principi? Gli esperti: «La carica motivazionale sarà la vera arma vincente» A questo punto viene da pensare che Giovanni Consorte, se non ci fosse stato, bisognava inventarlo. E non tanto perché il numero uno di Unipol, con il suo tentativo di scalata alla BNL, abbia messo in campo la migliore operazione possibile per sostenere finanziariamente la crescita delle cooperative. Anzi, sono ancora molti i dubbi che aleggiano sull?Opa, a cominciare da quelli che si palleggiano alcuni titani del diritto (Guido Rossi e Franco Bonelli ?contro? Renzo Costi, Francesco Galgano e Piero Schlesinger) circa l?esigenza o meno di mutare l?oggetto sociale dello statuto Unipol (il che si tradurrebbe in un ulteriore esborso di 2 miliardi di euro da parte della compagnia assicuratrice). Quanto, piuttosto, perché i riflettori accesi dai media sugli aspetti, appunto, finanziari dell?operazione hanno ?illuminato? anche le contraddizioni che albergano nel mondo cooperativo. E che si porta dietro sin dalla nascita. Quell?errore dei marxisti «Fino a tutto l?Ottocento», ricorda Stefano Zamagni, ordinario di economia politica all?università di Bologna, «economisti liberali come John Stuart Mill e Alfred Marshall sostenevano che la forma naturale di fare impresa fosse quella cooperativa mentre l?impresa capitalistica costituiva una forma accidentale. Contro le cooperative erano invece i marxisti, perché per loro le coop servivano a narcotizzare le brutture del capitalismo e finivano con l?allontanare la rivoluzione». Il Novecento ha quindi segnato la svolta e l?impresa a scopo di lucro che doveva rappresentare l?eccezione è diventata la regola mentre le cooperative, marchiate a fuoco dallo slogan ?piccolo è bello?, sono finite all?angolo. Culturalmente. Già, perché i numeri dicono l?esatto contrario, come sottolinea nell?intervista a fianco il presidente di Legacoop Giuliano Poletti. E sono proprio questi numeri, in testa a tutti un fatturato complessivo pari al 7% del Pil, che fanno sorgere alcuni interrogativi ormai ineludibili: fino a che punto le cooperative possono crescere? A quali condizioni? Che cambiamenti si impongono con urgenza? «Le cooperative tornano di attualità» spiega Vincenzo Rullani, ordinario di strategia d?impresa all?università di Venezia, «perché c?è una domanda di ?ripersonalizzazione? delle imprese capitalistiche. Ci si rende sempre più conto che un?impresa funziona bene se mobilita le persone e non crea meccanismi impersonali. Un manager che si muove in un contesto socio-economico complesso deve sapersi assumere dei rischi, prendere decisioni, ma nel decidere ci deve mettere del proprio, le proprie convinzioni, la propria immaginazione, deve saper convincere gli altri». E la tipologia di impresa cooperativa aiuta in questo? «Il punto è che quando le organizzazioni crescono, comprese le cooperative» risponde Pierluigi Sacco, ordinario di politica economica allo Iuav di Venezia, «è facile andare incontro a una tendenza alla spersonalizzazione. Ma se si è consapevoli di questo pericolo, lo stesso può essere agevolmente scongiurato. Non è un caso che schiere di consulenti aziendali abbiano costruito le proprie fortune vendendo alle aziende profit quei meccanismi motivazionali che, a vario titolo, tentano di imitare ciò che le cooperative hanno per costituzione organizzativa naturale». Meriti e risultati Ma se, in teoria, la forma cooperativa sembra avere le carte in regola per affrontare le sfide della crescita, non mancano le zone d?ombra: «Le cooperative hanno raggiunto dimensioni di rilievo senza la cultura necessaria per farlo» ammonisce Zamagni, «possibile che Confindustria debba avere tre università e il mondo cooperativo nemmeno una?» A ciò si aggiunge anche una debolezza clamorosa: «Nel mondo cooperativo» rileva Sacco, «non si riesce ancora a creare una correlazione significativa tra meriti e risultati mentre anche qui si deve ragionare in questi termini perché è un fatto di equità, è giusto che chi si impegna di più riceva anche di più». Un correlazione che, probabilmente, è il principale segreto del successo delle banche di credito cooperativo che, date per spacciate dopo l?introduzione del nuovo testo unico bancario del 1993, hanno costantemente incrementato in questi anni sportelli, raccolta e profitti. «Il nostro attuale successo» spiega Augusto dell?Erba, presidente della BCC di Castellana Grotte e di Iccrea banca «è il frutto della lungimiranza di Alessandro Azzi (presidente di Federcasse, ndr). Noi siamo cresciuti non ponendoci obiettivi astratti bensì rimanendo ancorati alla crescita del mondo di cui siamo espressione. La mia banca non eroga mai un finanziamento che non abbia una finalità produttiva ben precisa, trasparente e visibile perché non vogliamo mai finanziare la finanza per la finanza».


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