Famiglia

Quei portoni di Parigi spalancati sull’inferno

Il dramma degli immigrati africani nella capitale francese. Come si è arrivati a una situazione così in una delle più ricche città del mondo?

di Joshua Massarenti

Perché sono sempre le case degli africani a bruciare?». L?imprecazione di Ilanga Ntiguluku è terrificante. Perché terrificanti sono i fatti su cui vacilla il suo sgomento. La cronaca ricorderà la morte di oltre sessanta persone, tutte africane o francesi originari dell?Africa sub-sahariana, inghiottite tra le fiamme di incendi divampati in palazzi uno più vetusto dell?altro. Tre per la precisione: il primo, esploso nell?aprile scorso al Paris-Opéra (nel 9° arrondissement), uno dei tanti alberghi di basso rango predisposti all?accoglienza ?temporanea? di famiglie alla disperata ricerca di alloggio e in cui perirono 27 persone, in stragrande maggioranza maliani. Della Costa d?Avorio erano invece provenienti le vittime dell?ultimo rogo che ha mandato in fumo lo scorso 29 agosto uno squatt della rue Doré, nel quartiere in del Marais, mettendo la parola fine alla vita di 7 persone, tra cui quella di un bambino spinto dalla disperazione a buttarsi dal quarto piano.

Scale al buio
«Un bambino», mormora Ilanga. Assieme a sua moglie ne custodiscono quattro. «Tutti nati in Francia e di sangue congolese», racconta in un lampo di fierezza prima di ricordare, «la vita infernale che siamo spinti a fare». Il sogno di un percorso migratorio costellato di successi è rinchiuso in un monolocale degradato situato al terzo piano della rue Dunois, nel 13° arrondissement, a due pass del palazzo travolto dalle fiamme nel Boulevard Auriol. Bilancio: 17 morti, di cui 14 bambini. «E guarda caso, tutti africani».

Con una differenza di peso, «perché se le vittime del Paris-Opéra erano richiedenti di asilo e quelle di rue Doré degli squatters privi di permessi di soggiorno, i maliani periti al boulevard Auriol erano tutti lavoratori regolarmente retribuiti in attesa di alloggi decorosi. Alcuni di loro da più di dieci anni». A ricordarlo è Patrick Doutriligne, delegato responsabile della Fondazione fondata dal mitico frate cappuccino Abbé Pierre «per consentire ai più diseredati di vivere in appartamenti dignitosi».

La dignità di Ilanga si misura con «la fogna in cui la mia famiglia è costretta a sopravvivere». Il che significa niente elettricità, niente acqua calda e niente riscaldamento. Scuote la testa la moglie di Ilanga, consapevole della pericolosa precarietà di un palazzo costruito negli anni ?60 e pronto a fare scintille. «L?inverno, nelle scale non si vede un bel niente. Sia per l?andata che per il ritorno dalla scuola, i miei figli sono costretti a portarsi appresso una lanterna».

Siamo nel XXI secolo. A due passi del quartiere latino, il cuore della Parigi ben pensante e benestante. Un faro della grandeur française. Ma il modello di integrazione sociale francese è alle corde.

Su scala millimetrica, si riduce in rue Dubois nella contrapposizione tra «19 famiglie africane lasciate in stato di abbandono e l?unica donna bianca rialloggiata in un appartamento ex novo». Per Ilanga non ci sono dubbi: «La discriminazione razziale in Francia è all?ordine del giorno e a tutti livelli». Dello stesso parere è Benoîte Bureau, militante del Dal (Droit au logement), un?associazione fondata nel 1990 da senzatetto, convinte che l?accesso all?alloggio è un diritto inalienabile. Per gli immigrati, rimane una corsa ad ostacoli. «Il nocciolo del problema», assicura Bureau, «è la povertà, più diffusa tra gli immigrati rispetto ad altre categorie sociali. E purtroppo ai piedi di questa piramide sociale francese, ci stanno le comunità africane».

Più sfumata l?analisi di Patrick Doutreligne della Fondation Abbé Pierre, secondo il quale «il numero di africani residenti in alloggi precari non rispecchia la situazione degli africani sul territorio francese. Purtroppo prevale una confusione generale provocata dalla forte esposizione massmediatica degli ultimi roghi».

In mancanza di dati statistici sull?esclusione residenziale degli africani, tutti concordano sul fatto che la discriminazione razziale, le leggi sull?immigrazione e sull?alloggio, nonché la composizione delle famiglie originarie dall?Africa sub-sahariana rendono molto più complesso l?accesso degli africani sul ?mercato? pubblico e privato dell?alloggio.

Quella legge del 1974
«Bisogna risalire agli anni ?60» afferma l?antropologo Jacques Barou, specialista delle popolazioni dell?Africa occidentale, «quando gli africani di quell?area geografica giungevano da soli in Francia per motivi di lavoro con la speranza di tornare in madrepatria». Ma la crisi economica degli anni ?70 e una legge anti-immigrazione risalente al 1974 li costringe a cambiare radicalmente le loro strategie migratorie. «Inizia l?era dei ricongiungimenti familiari che nel rispetto della poligamia spinge l?immigrato africano a far venire su suolo francese non una ma più donne». Tra le conseguenze dirette, una moltiplicazione dei problemi sociali di alloggio. «Come se non bastasse», sottolinea Doutreligne, «lo Stato interrompe la costruzione di alloggi sociali lasciando in pasto ai privati il mercato immobiliare». I prezzi schizzano e dei ?neri?, francesi o africani che siano, il privato non si fida.

Oggi, tutti parlano di alloggi da costruire. Ma a rue Dunois, nessuno ci crede. Nemmeno la famiglia Ngitukulu: «è da cinque anni che ci promettono un nuovo alloggio. Ma niente. Agli alberghi che vanno in fumo, preferisco il mio monolocale fatiscente».

I numeri
Un buco di 100mila abitazioni

A Parigi, sono oltre 100mila le richieste di alloggi sociali. «Troppe», assicura il sindaco socialista Delanoé, protagonista di una convenzione firmata con il governo di centrodestra del presidente Chirac per costruire 22.500 alloggi sociali nella capitale, riabilitarne altri 24.500 e garantire 1650 case di accoglienza per casi urgenti. «Troppo poco», ribatte il Dal, esasperato da un mercato degli alloggi sociali reso perverso. I tetti salariali richiesti per accedervi sono esorbitanti. Nella maggior parte dei casi, si chiede tra i 3mila e i 5mila euro quando molte famiglie africane non percepiscono nemmeno mille euro. Esse vengono quindi incanalate sul mercato dell?alloggio cosiddetto temporaneo (400-500 euro di affitto al mese) oppure gettate in pasto ai commercianti del sonno, quei proprietari di alberghi sociali vetusti tipo quello del Paris-Opéra. L?alternativa: costruire alloggi, possibilmente spaziosi e poco costosi.

Il paradosso
Non c’è casa? Vai in albergo

Si chiamano Formule1, Etap Hotels, Première Classe. Alberghi di una o due stelle, ma dignitosi. Disseminati lungo le principali autostrade francesi, sono frequentati da rappresentanti in giacca e cravatta o turisti di passaggio. Ma da un po? di anni, anche l?esercito dei poveri fa gola. Per la direzione del gruppo Louvre Hôtels (Campanile, Kyriad, Première Classe), «questa strategia rientra nei piani commerciali di un albergatore costretto a riempire il proprio albergo. Tuttavia, non sappiamo in che proporzione i nostri alberghi lavorano in questo modo».
Di sicuro il fenomeno è destinato a diffondersi. Di fronte alla duplice esplosione dei prezzi dell?immobiliare e il conseguente aumento delle richiesti di alloggi sociali, gli alberghi turistici non si sono fatti pregare. È il caso dell?Hôtel Montmartrois, a Parigi, nel 18° arrondissement. Il proprietario ha appena investito 1,5 milioni di euro per ristrutturare il suo edificio trasformando 28 delle sue stanze in monolocali da affittare a rifugiati politici. Il Dal ha denunciato albergatori parigini pronti a sistemare in una stanza da 15 m2 una famiglia intera in cambio di 3500 euro al mese. L?Hotel de Bourgogne, nell?11° arrondissement, accoglie dodici famiglie e 56 persone in venti camere. Al quinto piano, Ferroudja, assieme a suo marito e i suoi otto figli, tutti in regola, occupano tre stanze per 4mila euro. Quanto basta per affittare un appartamento di 200 m2 nella capitale. Da parte sua, l?albergatore può contare su 25mila euro al mese e un sistema cinico quanto assurdo garantito dai finanziamenti messi a disposizione dai poteri pubblici (Samu, Aiuto sociale all?infanzia, ecc.).

Cosa fa VITA?

Da 30 anni VITA è la testata di riferimento dell’innovazione sociale, dell’attivismo civico e del Terzo settore. Siamo un’impresa sociale senza scopo di lucro: raccontiamo storie, promuoviamo campagne, interpelliamo le imprese, la politica e le istituzioni per promuovere i valori dell’interesse generale e del bene comune. Se riusciamo a farlo è  grazie a chi decide di sostenerci.