Welfare

Ma il medico non può smettere di curare

Le cosiddette Carte di autodeterminazione sono nella pratica inutili perché la deontologia medica si oppone già a cure superflue e dolorose.

di Redazione

Ho letto che negli Stati Uniti in molti firmano la Carta di autodeterminazione per evitare il rischio, un domani, di subire l?accanimento terapeutico. È un documento valido? Mario R. (email) Nei confronti di una medicina fortemente tecnologizzata e spesso lontana dai desideri del malato che potrebbe oltrepassare la frontiera della cura, si è fatta strada la Carta di autodeterminazione, denominata anche con altri termini: testamento biologico, testamento di vita, direttiva anticipata. Ha la finalità di esprimere la propria volontà, con valore vincolante, nei riguardi degli interventi sanitari da attuarsi o da sospendersi qualora le facoltà di intendere e di volere siano compromesse da malattia invalidante o da grave incidente. È la possibilità di decidere ?quando? e ?come? porre fine all?esistenza. Pur consapevole che ognuno può rifiutare la terapia, la Carta di autodeterminazione rappresenta prevalentemente l?espressione esasperata del principio di autonomia. È praticamente inutile poiché la deontologia medica si oppone a cure superflue e dolorose, mentre le prestazioni ordinarie, dall?idratazione all?alimentazione (artificiale o non), all?aspirazione dei secreti bronchiali, alla cura del corpo? sono doveri che non possono essere omessi. Dunque, forti perplessità sorgono circa l?opportunità del documento che riguarda una situazione futura e come tale non facilmente prevedibile sia a livello psicologico che patologico. Nessuna Carta di autodeterminazione saprebbe adattarsi alle diverse e variabili condizioni del paziente; anche il progresso diagnostico e terapeutico potrebbe sconfiggere una patologia ieri inguaribile ma oggi curabile. Di fronte al tragico dilemma personale e professionale, è necessario ricordare che nessuna volontà del paziente può vincolare la libertà e l?autonomia deontologica e professionale del sanitario, essendo questo un diritto appartenente alla tradizione della medicina, riconosciuto dalla giurisprudenza e ribadito dalla deontologia. Così si esprime il Codice italiano di deontologia medica: «Qualora venga richiesto di interventi sanitari che contrastino con la sua coscienza o con il suo convincimento clinico, il medico può rifiutare la propria opera» (art. 19). Di conseguenza «il medico, anche se richiesto dal paziente, non deve effettuare trattamenti diretti a menomare la integrità psichica e fisica e ad abbreviarne la vita o a procurarne la morte» (art. 35). Per alleviare il diffuso e comprensibile dubbio: «Che ne sarà di me quando non sarò più in grado di decidere?», l?unica dichiarazione accettabile è quella che possa rassicurare nei confronti di trattamenti terapeutici lesivi e sproporzionati. di Gian Maria Comolli


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