Formazione

Sono diventato Mazzi studiando greco

A 20 anni dalla fondazione di Exodus, ecco il ritratto di un prete di 76 anni che non è stanco di andare controcorrente

di Sara De Carli

Chissà se da giovane don Mazzi amava il greco. Bisognerebbe chiederlo a don Verzè, suo insegnante di greco e latino nelle stalle di Castel Cerino di Soave, sotto le bombe della seconda guerra mondiale. Fatto sta che una cosa don Mazzi l'ha imparata bene: la parola hodòs, strada. Con quell'attanagliarsi, nel suono e nel significato, a un'altra parola, methodos, che a chi non ha fatto greco non verrebbe mai in mente. La strada e il metodo: la strada è il metodo. Chissà? Però oggi, che di anni don Antonio ne ha quasi 76, sembra proprio che queste due parole siano state per lui un binario, che lo ha portato in mezzo mondo. Esiste una locuzione più altisonante per dire tutto questo: "pedagogie itineranti". È il metodo di don Mazzi e di Exodus.

Un nome che è un programma, per una realtà che oggi compie vent'anni e ha segnato la storia delle comunità di recupero per i tossicodipendenti: «Questo concetto del cammino dobbiamo mettercelo bene in testa: come metodo per la società, non solo per i tossici», spiega don Mazzi. «Tutti abbiamo bisogno di liberarci da qualcosa: puoi essere figlio, padre, tossico, prete, prostituta, malato, sano, ma tutti siamo in cammino. La parte migliore dell'uomo è quella che cerca, non quella che ha già trovato. Noi invece siamo diventati una società di gente in pantofole».

Arrivo al Parco Lambro . Don Antonio, aria burbera e sorniona insieme, mi accoglie (chiaramente con le scarpe ai piedi) nel giardino della Cascina Molino Torrette, zona Nord-Est di Milano, sul confine del Parco Lambro. Abita qui dal 1989, insieme ai suoi disperati, come li chiama lui: «Era una cascina mezza diroccata, all'inizio l'abbiamo occupata abusivamente per evitare che la prendessero gli spacciatori: dormivamo con gli ombrelli aperti perché pioveva da tutte le parti, e c'erano dei topi lunghi 30 centimetri». Pian piano è diventata la sede principale di Exodus, proprio dalla parte opposta rispetto all'Istituto professionale dell'Opera Don Calabria di via Pusiano, dove tutto è cominciato. In mezzo lui, il grande protagonista, il Parco Lambro.

L'eroina nel pannolino

«Nel 1979 i miei superiori mi hanno mandato a fare il preside della scuola di via Pusiano. Io venivo da un'esperienza di oratorio e di scoutismo, da Primavalle, una delle borgate più difficili di Roma, da un lavoro con i malati di mente: insomma, tutto tranne che il preside di una scuola», ricorda don Mazzi, «ma ho accettato». Per poi capire, in poco tempo, che il suo campo d'azione andava oltre il perimetro dell'istituto: i suoi ragazzi andavano al Parco Lambro a comprarsi la dose, qualche tossico si trascinava fino al bar della scuola. «Quando dalla finestra del mio ufficio ho visto una ragazza giovanissima che tirava fuori una bustina di eroina dal pannolino del suo bambino, ho deciso che era ora di darsi una mossa». Don Antonio ha cominciato a camminare per i sentieri del Parco Lambro, di giorno e anche di notte, 580mila metri quadri di verde diventati terra di nessuno. «Di qualcuno erano», puntualizza: «degli spacciatori. Il traffico era in mano ai senegalesi, non so perché. Al Parco Lambro arrivava gente da tutta Europa, nel weekend c'erano anche 3mila persone che venivano a farsi. Si avvicinavano alla collina Thailandia, pagavano la dose, salivano a ritirarla, scendevano dall'altra parte, vicino a una fontanella, e si bucavano. Una roba allucinante: siringhe, coltelli, sangue, gente che bivaccava sulle panchine e sugli scalini della metropolitana, la paura, gli elicotteri, la polizia. Una volta c'è stata una retata incredibile: hanno portato via sei pullman di gente e raccolto 32 sacchi di siringhe usate».

Sputacci sul muso

Era il 1982, o forse il 1983, e Milano si svegliava con questa immagine: 10mila siringhe infilzate negli alberi. La gente del quartiere inizia a essere stanca di rapine, furti, stupri. Qualche minaccia arriva anche a don Antonio: «Roba da niente», minimizza oggi lui, «scritte sul muro di casa, sputacci sul muso, solo una volta mi hanno piantato un coltello alla gola». L'idea era quella di copiare Zurigo: recintare il Parco Lambro e metterci fuori una serie di ambulanze e volanti della polizia, in attesa che i ragazzi uscissero, feriti o morti. «Ricordo un consiglio comunale», dice don Mazzi, «ho quasi rischiato il linciaggio. Ho detto che non ero d'accordo col chiudere il parco, che nel parco bisognava entrarci e cercare di salvare quei ragazzi. Mi ricordo un uomo che mi ha detto: "Ma cosa vuoi salvare, qui ci vuole il lanciafiamme". Ma forse era solo disperato». Alla fine don Mazzi ha vinto, anche se recintare il parco sarebbe stato molto più facile: «È stata l'ultima grande battaglia civile di Milano. Bisogna riconoscere che il Comune, allora, ha osato fare una scelta difficile e rischiosa».

I primi compagni

I primi compagni di don Antonio sono stati gli educatori del Don Calabria: Franco Taverna e la sua fidanzata Bruna, assistente sociale, Fabrizio Garbò e Marina, Piero Colaprico. Molti di loro sono ancora qui. Poi le maestranze della Rizzoli, che sta a due passi dalla Cascina Molino Torrette, le Acli di Lambrate, le mamme dei disperati che stavano dentro il parco? Tutto era nuovo, da inventare. Soprattutto perché don Antonio, pur non sapendo ancora bene cosa voleva fare, sapeva benissimo quello che non voleva: una comunità residenziale. «Io ho sempre avuto questa idea», ricorda, «per contrastare uno sballo negativo devi proporre uno sballo positivo, un'avventura che disincanti i ragazzi facendoli incantare per qualcosa d'altro. È il gioco del pendolo, uguale e contrario». L'idea della carovana viene a don Mazzi leggendo il giornale: la fanno negli Stati Uniti con i ragazzi del carcere minorile, un viaggio nel Far West, come i pionieri, per riscoprire il gusto del vivere. «Il mondo che "se ne intendeva" l'ha considerata subito un'eresia», taglia corto. «Allora per recuperare i tossicodipendenti c'erano solo due modelli: la galera e la comunità terapeutica stile Muccioli, una comunità chiusa; chi ci entrava, per sei mesi non poteva neanche telefonare ai genitori. L'unico che mi ha appoggiato è stato Vittorino Andreoli: avevamo lavorato insieme sul disagio mentale, sapevo che era abbastanza lucido per rischiare, l'ho messo in mezzo io perché avevo bisogno dell'appoggio di un'autorità accademica, e si è beccato un sacco di critiche». Le stesse che sono toccate anche a don Mazzi, anche all'interno della sua congregazione: «Ma è normale», dice ridacchiando. «Non puoi pensare che vent'anni fa un superiore potesse accettare senza batter ciglio che tu alle 3 di notte stai in Stazione Centrale in mezzo alle prostitute e poi alle 4 te ne porti a casa una a fare la doccia. Oggi sono cambiate molte cose».

La risposta dei ragazzi invece è entusiasta. Quattordici ragazzi tra i 20 e i 25 anni e quattro operatori partono il 25 marzo 1985 dall'abbazia di Maguzzano, sul lago di Garda, e attraversano mezza Italia, da Bormio a Todi. Attività musicali, artistiche, espressive, e anche di servizio: strappare erbacce, imboccare anziani, far giocare i bambini, «perché quando ci dedichiamo alle disgrazie altrui, in realtà saniamo le nostre. È una specie di egoismo positivo, ti fa scoprire di essere utile».

Come una gravidanza

La carovana torna a Milano il 25 dicembre, nove mesi giusti giusti, il tempo di una gravidanza. L'idea è quella di trasformare dei vagabondi in pellegrini. «La prima carovana è stata un'esperienza molto forte: è stata l'unica volta in cui abbiamo salvato i due terzi delle persone. Pensavamo di aver trovato la bacchetta magica per risolvere il problema della tossicodipendenza», dice don Antonio con un pizzico di disillusione. Le carovane però sono rimaste il pilastro del progetto educativo di don Mazzi, e anche oggi che Exodus ha trenta centri sul territorio nazionale, mille persone che vivono nelle sue comunità e altre tremila che ogni anno gravitano attorno alle sue attività, almeno 40 giorni all'anno si spendono in un'esperienza di comunità itinerante, dalla Svizzera a Santiago, dalla Moldavia al Madagascar. Per quanto riguarda i risultati, in questi 20 anni il rapporto purtroppo si è invertito: due terzi di quelli che sono passati da Exodus si sono persi. «Da Natale a oggi, sette dei nostri ragazzi sono morti: suicidi, omicidi, overdose. Almeno per quattro è stato un fulmine a ciel sereno, delle cose assolutamente inspiegabili. Chiaro che ti fai tante domande? Ma ormai accetto e basta. Anche perché ad essere onesti l'obiettivo dell'esodo non è arrivare, ma cercare. Mosè alla Terra Promessa non ci è arrivato, e per un sacco di altra gente la ricerca sarà sempre incompiuta. Dobbiamo imparare a fare della precarietà un valore, perché solo chi è precario cerca».

Qui si innesta l'altro cardine di Exodus: il perdono. A Exodus si mettono in conto la fuga e il ritorno, perché l'impostazione qui non è terapeutica ma educativa, e non c'è educazione senza perdono. Don Mazzi confessa: «Ne ho avuto uno che è entrato e uscito 23 volte in sei anni. Ho fatto impazzire tutti i miei, dicevano "adesso basta, c'è un limite a tutto". È come quando Pietro va da Gesù e gli chiede quante volte dobbiamo perdonare: a Pietro 7 volte sembrano già tante, e Gesù gli dice: "Come 7? 70 volte 7". Il Padre nostro è una preghiera bellissima, perché mette insieme pane, padre e perdono; noi invece oggi manchiamo di paternità perché manchiamo della capacità di perdonare. Ma chi ti dà il pane e non ti perdona è un padrone, non un padre: e infatti andiamo verso una terra di tiranni». Ma don Mazzi non si sente un po' profeta? «Chi, io? No. Quando ho incontrato uno che si faceva, uno che tentava di suicidarsi, io ho pensato che fossero delle chiamate. E ho risposto. Punto. Certo a volte è difficile, soprattutto quando i segni sono in contraddizione con le parole. Ma il Signore parla più con i segni che con le parole. Siamo noi che pensiamo che lui sia il Dio delle parole. Lui invece è il Dio degli incontri».


Qualsiasi donazione, piccola o grande, è
fondamentale per supportare il lavoro di VITA