Salute

Torniamo in noi tra camera e cucina

Due case nel centro di Milano mimetizzate nei condomini, ospitano ragazzi schizofrenici che imparano a vivere come non avrebbero mai fatto in manicomio.

di Redazione

Ad aprire la porta viene Michela: è giovane come gli altri. Anche lei sta fumando. «La casa è un po? in disordine», si scusa, «ho appena finito di urlare perché dopo pranzo hanno lasciato un disastro in cucina». In effetti la cucina è sporca, bottiglie d?acqua mezze vuote dappertutto e il posacenere pieno. Come in una casa di studenti: il salotto è soleggiato, un copridivano etnico e la pianta altissima, accanto al televisore spento, mettono tranquillità. E il lungo tavolo con dieci sedie fa immaginare cene con gli amici, festicciole a bibite e salatini. Christian e Riccardo sono incuriositi, scrutano l?ospite ma senza diffidenza. Lo capisci subito che hanno solo voglia di chiacchierare. Christian mostra la sua camera, la condivide con altri due ragazzi: lui ha 28 anni ma sembra più piccolo. Ha i denti rovinati, racconta che proprio non riesce a smettere di fumare. Sul comodino ha delle videocassette e qualche libro, Michela scherza: «Ci propina sempre gli stessi film». «Michela è la ragazza più bella che abbia mai conosciuto», risponde lui per farsi amare.
Riccardo ha 19 anni, è qui da una settimana. Ha begli occhi scuri e impauriti, capelli neri sparati e look curato. Si agita quando capisce che non potrà restare per il caffè, ha una visita fra mezz?ora. Dice che deve comprarsi un paio di scarpe ma non sa che marca scegliere. Guendalina è altrove: Michela dice sottovoce che sta passando un periodo difficile, e infatti si accende una sigaretta dietro l?altra e fatica a rispondere alle domande. Gesti lenti e viso disteso che tradiscono un che di altolocato. Alessandra se n?è stata zitta, questa piccola confusione la infastidisce: all?improvviso si avvicina a Michela e si fa abbracciare a lungo, accarezzare i capelli ricci e scuri. Sorride. È entrato Paolo: «Ragazzi, posso stare un po? con voi?». Ha vissuto qui per tanto tempo, e da dieci anni abita di fronte con la fidanzata, Anna. Racconta delle sue traduzioni dall?inglese, passeggia per casa fumando lentamente e le pareti sono tappezzate dai suoi quadri. Gialli e rossi.
Anche Paolo è matto. Come tutti, in questa piccola comunità-famiglia nel centro di Milano. Si chiama Lighea – come la sirena di Tomasi di Lampedusa che seduce e provoca la perdita di sé – ed è un esperimento. Eppure queste due case milanesi di otto ospiti ciascuna, distribuiti per età, esistono da quasi sedici anni. Da quando Giampietro Savuto, psicoterapeuta, si è accorto che il lavoro in manicomio non lo faceva più sognare. Che quegli stanzoni riuscivano solo a contenere la follia, come una grande madre senza tempo che incoraggia al sonno, all?apatia. «Potevano essere gli anni ?50, ?70 o ?90: là dentro non te ne accorgevi», racconta. Così Savuto ha tentato l?avventura di Lighea, prima come comunità privata, poi si è convenzionato con le Asl locali e infine, un mese fa, ha trasformato la sua creatura in una Fondazione. Nel frattempo, insieme a medici e professionisti di ogni campo, ha creato un?associazione per informare sulla malattia mentale ed evitare l?emarginazione di chi ne è affetto: si chiama AIEMm, e un paio d?anni fa è stata anche premiata al Festival di Venezia per un cortometraggio sui matti. «Gli attori erano veri», precisa Savuto, «la trama me l?hanno suggerita i pazienti, quando li ho pescati che facevano la mia imitazione simulando un colloquio dallo psicologo».
L?esperienza di Lighea e i suoi metodi riabilitativi sono raccontati in un libro fresco di stampa, scritto da Savuto insieme allo psichiatra Charmet che per un anno ha studiato questo modello di comunità per schizofrenici (questa la diagnosi per la maggior parte di loro). Un modello che a Londra esisteva già negli anni ?70 e da noi resta una novità. E Padre quotidiano (Bollati Boringhieri, 30.000 lire) svela la direzione già dal titolo: «La madre è chioccia, protettiva. Il padre apre al mondo, responsabilizza», esemplifica Savuto, «ed è quello di cui hanno bisogno questi ragazzi: imparare a vivere, come in una famiglia qualsiasi. Ecco il perché, ad esempio, dell?appartamento in centro, dentro a un condominio. Devono stare nel tessuto cittadino, muoversi liberamente per la città, qualcuno lavora, ma solo chi è davvero in grado. Gli altri frequentano laboratori artistici, palestre, lezioni d?inglese e d?informatica». A questi corsi nessuno sa della loro ?diversità?: «A che serve dirlo?», sorride Michela, una dei 35 operatori che fanno a turno ad ?accompagnare? i ragazzi 24 ore su 24, sette giorni su sette, vacanze comprese, tutti insieme. Perché il legame con la famiglia va allentato. Perché la sirena Lighea non rappresenta solo il male che fa sentire voci e presenze nemiche, ma anche la madre opprimente che per istinto non riesce ad accettare un figlio adulto e malato. E preferisce instaurare con lui un patto segreto che finisce per «tenerlo legato al letto della sua camera di adolescente fallito», scrive Charmet. E Savuto spiega: «La malattia mentale sorge durante il passaggio dall?adolescenza all?età adulta, intorno ai 16-18 anni: non a caso è l?ultimo anno del liceo, o il primo all?università, o la vigilia della leva. Se la malattia mentale colpisce l?uno per mille della popolazione, l?80% di questi sono giovani. Il perché non lo sappiamo, ma l?indagine a posteriori ci parla di bambini che si chiudono in se stessi, di rapporti simbiotici con la madre, di lacerazioni nelle relazioni e nelle emozioni. Nella terapia seguiamo anche le famiglie».
«Oggi me li portano a 18, ieri aspettavano i 30 anni», dice Savuto, «significa che qualcosa è cambiato. In meglio». Anche se non si guarisce dalla schizofrenia, «ma si può imparare a vivere», prosegue lo psicologo. E fumando in continuazione – proprio come i suoi pazienti – cerca di spiegarlo, questo vivere: «Prendere il caffè al bar e sapersi proteggere da chi ti vuole vendere un accendino. Pulire la tua camera, farti la barba, incontrare un?amica che ti suscita fantasie erotiche, andare al cinema…». Christian, Riccardo e gli altri lo fanno. Vivono. Forse resteranno due-tre anni in quella bella casa, per poi riuscire a vivere da soli, come è stato il percorso di centinaia di ospiti di Lighea fino a oggi. O forse la loro mamma-sirena verrà a riprenderseli al primo fallimento, com?è accaduto ad altri. Intanto stasera andranno in pizzeria, e domani c?è la palestra, per qualcuno il lavoro. C?è la vita.
Info: Fondazione Lighea
tel. 02 72001549

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