Il monito è arrivato quasi in contemporanea da due autorità del terzo settore: Carlo Borzaga lo ha fatto dalle colonne di questo giornale; Stefano Zamagni, invece, parlando davanti alla platea dei rappresentanti del Forum in ?ritiro? al seminario di Assisi. Qual è la questione sollevata con energia e chiarezza dai due professori? Che la legge sull?impresa sociale, appena approvata dal governo ma in attesa dei fondamentali decreti attuativi, corre il rischio di trovarsi dimezzata, magari con il consenso inconsapevole dello stesso mondo al quale è destinata. Ha scritto Borzaga (che è preside alla facoltà di Economia di Trento e ha varato il più frequentato master in management del non profit): «Uno dei passaggi più delicati sarà quello della definizione dei settori in cui l?impresa sociale potrà operare. Sarà strategico, perché segnerà i confini entro cui l?impresa sociale potrà agire e ne determinerà le sue potenzialità di sviluppo». Da tanti segnali invece sembra che si stiano proprio tracciando i settori entro cui l?attività dell?impresa sociale dovrà scriversi. Se così accadesse, la portata innovativa della legge, la sua capacità di innescare dinamiche imprenditoriali nuove a 360 gradi verrebbe inevitabilmente imbrigliata.
Il riferimento d?obbligo è quello all?analoga legge inglese, che sarà operativa proprio tra qualche settimana. La cosiddetta Cic, Community interest company, non prevede settori specifici d?intervento ma mette come criterio che l?attività di queste imprese sia finalizzata all?interesse della comunità. Probabilmente questa prospettiva è inapplicabile in Italia, perché non è conforme alla nostra tradizione giuridica, come ha sottolineato lo stesso Borzaga. Ma se passa il criterio dei settori che rigidamente ?ingabbiano? gli ambiti in cui l?impresa sociale potrà sussistere, ci troveremo in una situazione non molto diversa da quella di oggi, in cui, per esempio, la cooperazione sociale può agire solo nei servizi alla persona. Invece l?impresa sociale è una scommessa culturale di grandissima portata, perché introduce l?idea che un?impresa possa portare beneficio anche se non distribuisce utili: infatti il criterio vincolante l?impresa sociale è proprio quello della non distribuzione degli utili. Il valore aggiunto è nell?incremento del bene collettivo, e questo non è circoscrivibile per definizione. È bene collettivo un?informazione che si occupi di temi (poniamo l?Africa) di cui i grandi mass media non si occupano perché non fa audience o non incrementa business. È bene collettivo garantire un servizio postale, là dove questo servizio non si ripaga. Oppure aprire un supermercato in una zona depressa delle nostre città. Sono ipotesi banali, ma che rendono l?idea di come questa impresa che mette al centro l?incremento del patrimonio più grande che una comunità possa darsi, cioè il capitale civile, non possa concepirsi all?interno di steccati.
Il testo della legge approvato dalla Camera prevede che i settori ci siano,
anche se dichiara prevalente il vincolo dell?interesse generale. Ora diventa decisivo che chi discuterà e preparerà i decreti attuativi si attenga a un?accezione la più larga possibile, anche semplicemente per evitare che nel giro di qualche anno la realtà, con le sue trasformazioni rapidissime, renda anacronistici questi confini che oggi si vorrebbero tracciare.
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