Famiglia

Nepal, viaggio tra le donne schiave

Non hanno nessun diritto, neppure quello del matrimonio, e lavorano al posto degli uomini. Due associazioni italiane lavorano per cambiare le cose

di Aldo Daghetta

Namaste, buona fortuna e il sorriso ironico e un po? stupito dell?addetto ai visti. Anche se il Nepal è in pieno colpo di stato da inizio febbraio, all?aeroporto Tribhuvan di Kathmandu non sono solo: decine di occidentali, soprattutto alpinisti che vengono per scalare le montagne più alte del mondo, del tutto ignari che da febbraio del 1996 è in corso una guerra civile, con oltre 11mila vittime, tra i maoisti dell?agronomo Prachanda e la monarchia nepalese. Nonostante l?atmosfera un po? spettrale che si respira allo sbarco, con enormi corridoi animati solo dal passo secco dei soldati di guardia, uscendo e percorrendo le strade sterrate che portano in città la guerra non si vede, ma si intuisce.
Ci sono postazioni dell?esercito agli angoli delle strade principali e intorno al palazzo reale, enormi cartelli in inglese e nepalese firmati dal re Gyanendra spiccano come monito per i passanti sostenendo che tutte le istituzioni devono rispettare i diritti umani affinché la democrazia possa affermarsi. Se non continuassero a sparire ogni giorno persone, avvocati, giovani studenti, medici e attivisti dei diritti umani verrebbe quasi da ridere: le carceri sono di fatto inaccessibili agli osservatori dell?Onu, ma anche agli stessi funzionari della Corte suprema che devono avvisare tre giorni prima di ogni visita. Molti giovani non fanno da anni ritorno a casa e i genitori non sanno se sono stati presi dall?esercito o dai maoisti, se sono ancora vivi o se sono stati uccisi e i pochi che riescono a uscire di galera raccontano di torture e sevizie.
Il Nepal è oggi un crogiuolo di contraddizioni che ti spiazzano: attraversando la capitale si oltrepassano case di legno e mattoni, basse e semidiroccate, affiancate ogni tanto da alte costruzioni in stile Rana, l?antica dinastia di re costruttori. Parli con donne come Dyurgana, che non sa la sua età perché priva dell?idea del tempo che passa, che calcola lo spazio in ore di cammino e l?unica cosa che riesce a comunicarti con le espressioni del viso e le parole smozzicate attraverso i pochi denti che le rimangono, è che «tutta la mia vita è stata una ricerca continua di cibo e vestiti per me e i miei figli».
Ottenuto dall?esercito un permesso di uscita dalla città, prendo la strada che va verso il distretto di Sindhupalchowk, dove nel villaggio di Melamchi una fondazione italiana, Pangea onlus, con la collaborazione dell?associazione fiorentina Apeiron, sta sviluppando un Centro donna con corsi di istruzione, laboratori professionali e microcredito perle donne beneficiarie.
Dopo gole e valli di montagna dove su terrazze aeree donne curve e scalze piantano il riso e trasportano legna verso case abbarbicate sulle rocce, arrivo al villaggio di Melamchi. Una strada sterrata affiancata da un lato di case, idee di negozi e campi lungo un fiume. Un migliaio di persone immerse in una realtà rurale che ricorda il medioevo.
L?elettricità è un miracolo che avviene solo in occasioni particolari grazie a generatori a gasolio, non c?è acqua potabile nelle case, si cucina sul fuoco a legna e ci si lava a turno, al mattino prestissimo, in una delle tre fontane a cui l?acqua arriva solo ad ore precise. Ciò che sconvolge non è la povertà estrema, ma l?arretratezza della mentalità maschile locale che relega la donna all?ultimo posto della pur minima organizzazione sociale.
Parliamo con Parbati, una donna che con 15 ore di lavoro al giorno riesce a mandare i due figli alla scuola locale. Emerge una consapevolezza dei diritti violati: vittime spesso di violenza domestica e soprusi continui, sono anche beffate dal fatto che il matrimonio non è un?istituzione, ma una convenzione e quindi viene dichiarato solo in maniera informale ai componenti del villaggio.
Non essendoci un rapporto giuridico basato su diritti e doveri, ma una situazione di fatto, ciò permette all?uomo di abbandonare la moglie per qualsiasi motivo, senza riconoscere alcuna responsabilità anche in caso di violenze. La donna invece per ottenere il ?divorzio? deve vivere separata dal marito per almeno sei mesi, cosa del tutto impossibile in un piccolo villaggio dove verrebbe subito additata come strega o prostituta. Si alzano alle 4 del mattino, lavorano in casa, nei campi o nei negozi dei mariti. Sita, 40 anni, arrivata qui dal suo villaggio, che dista otto ore di viaggio, il giorno del matrimonio avvenuto quando aveva 15 anni, è la responsabile del gruppo di donne beneficiarie del Centro donna: «Guido questo gruppo perché conosco la sofferenza, la vivo ogni giorno e voglio aiutare altre donne vittime di mariti violenti».

Una storia: solidarietà “rosa”

Chameli ha oggi 33 anni e si è sposata quando ne aveva 14. Dopo che erano nati già due bambini, il marito decide di farsi sterilizzare ma Chameli di lì a poco rimane incinta un?altra volta. Insultata e accusata di tradimento subisce una punizione pubblica dall?intero villaggio. Legata a un palo, senza vestiti, le gettano addosso secchiate di acqua gelata e di escrementi. Quasi morta riesce a scappare nella foresta dove alcune donne la trovano, la curano di nascosto e la convincono ad andare a Kathmandu presso lo Shelter della Women?s Foundation che accoglie le donne in difficoltà. Ora è nata una bambina che vive con lei; gli altri figli non li ha più rivisti.

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