siste ancora l?Europa? Dopo quanto è accaduto a Bruxelles, dove le grandi potenze del continente in conflitto tra di loro non hanno trovato un accordo sul bilancio dell?Unione, qualcuno ha posto anche questa domanda estrema. L?Europa si è arenata tra i bizantinismi di una burocrazia che ha spento ogni entusiasmo, tra i particolarismi di leader politici mediocri e impanichiti davanti al voto di elettorati sfiduciati. Sembra quasi che quel processo che, pur a strattoni, va avanti da più di mezzo secolo, e che passo per passo è riuscito ad aggregare 25 Paesi, ad eliminare buona parte delle frontiere e a dare a 12 Paesi una moneta unica, sia arrivato al capolinea. è davvero così? Purtroppo la politica non aiuta a trovare una riposta: i Paesi che solo due anni fa sembravano i portabandiera di un ritrovato orgoglio euro-pacifista (Francia e Germania), oggi si scoprono come i più arroccati e conservatori. In compenso la Gran Bretagna di Blair, da sempre vissuto come avamposto americano, oggi si presenta come il Paese capace di un minimo di visione e di proposta. Insomma, anche questa volta gli schemi sono andati a pezzi; e nella confusione l?Europa sembra aver smarrito quei timidi connotati che pur era riuscita a darsi.
Se la politica non ci soccorre, però, può soccorrerci il pensiero. Come quello di Roberto Esposito, filosofo (oltre che membro del comitato scientifico di Communitas, il mensile edito da Vita). Interpellato sul destino dell?Europa, Esposito ha indicato, con chiarezza, una doppia possibilità: o la via ?comunitaria? che porta «all?allargamento e alla rottura dei confini» o la via ?immunitaria? che porta «alla chiusura verso gli altri mondi». Non sono due modelli contrapposti: perché uno rappresenta un?idea di Europa, l?altro invece rappresenta la sua negazione. L?Europa che rompe i legami al proprio interno è anche un continente che non sa più rapportarsi con i suoi vicini: è impressionante il dato riferito dall?economista Christopher Stevens intervistato in questo numero: l?Africa, che era tra i primi partner commerciali dell?Europa nel 1975, oggi è desolatamente all?ultimo posto.
Per questo nell?idea di Blair di lanciare una grande iniziativa verso i Paesi poveri c?è qualcosa di interessante in primo luogo per l?Europa stessa: perché nello slancio le ridà un ruolo, le ridà una ragion d?essere che le beghe di cortile le hanno fatto smarrire. Non solo: dà anche un criterio politico in base alla quale sciogliere i proprio ?nodi? di bilancio. Perché se la politica agricola è un elemento che garantisce, per dirla con Esposito, ?immunità?, è di conseguenza l?elemento che impedisce un processo comunitario. La Pac è il simbolo di un?Europa anacronistica che grida e richiede nuove regole sui commerci al primo cargo di reggiseni sottocosto sbarcati dalla Cina, e intanto mantiene da decenni, a furia di sussidi, un?agricoltura che strangola le economie dei Paesi poveri. L?Europa che si chiude è un?Europa che si divide e che quindi nega a se stessa un futuro. La clamorosa rottura di Bruxelles almeno è servita a fare chiarezza su questo. Le idee di Blair di convertire parte degli fondi buttati nella Pac in investimenti tecnologici e di sostenere un?iniziativa senza precedenti di sostegno all?Africa, sono idee buone perché hanno dentro ?un?idea? di Europa. Dal primo luglio comincerà il semestre inglese. Ci possiamo sperare?
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