Volontariato

Philippe e il mostro

Diario Un famoso attore in incognito tra le associazioni di Protezione civile

di Philippe Leroy

Quando ho saputo del terremoto ho deciso di partire. Perché? Non lo so. Dovevo fare qualcosa. Mia figlia, che ha cinque anni, mi ha detto: «Dove vai? » e io: «Dai terremotati». A lei è parso normale, e anche a me. Era lunedì ventinove. Sono rimasto una settimana. Con le indicazioni di un amico sono finito nel campo di Colfiorito. Mi ha accolto Giorgio Locci. Coordina i volontari dell?associazione volontari anti incendi boschivi. Sono tutti toscani. Uomini di poche parole. Lui, Locci, dormiva mezz?ora per notte, figurarsi se sprecava tempo a parlare. Mi ha affidato ad una squadra. Avevamo un muletto, con su tutta gente di Carrara. Damiano lo guidava, un ragazzo di venticinque anni. Lo chiamavo Schumacher, perché il nostro mezzo non superava i cinquanta all?ora. Poi c?era Nicola, dell?istituto nautico, faceva da navigatore, e utilizzava la radio. E infine c?era uno studente di agraria, Davide. Sono tutti poco più che ragazzi, ma sono volontari straordinari. Quando mi hanno visto arrivare erano freddi. Pensavano fossi lì per farmi pubblicità. Ma quando abbiamo cominciato a lavorare hanno smesso di chiamarmi Yanez. Ero Philippe e basta. Ora mi sento uno di loro. Ho una certa attitudine al comando, perché ho fatto l?ufficiale nell?esercito francese in due guerre, in Indocina e in Algeria. Ho vissuto in Sudamerica. Ho fatto tutti i mestieri, e a fare l?attore ho cominciato solo a trent?anni. Non ho mai chiamato a casa mia un idraulico o un elettricista o un falegname. So fare tutto. Per questo mi sono trovato bene con loro. Non eravamo volontari venuti dopo un?emergenza, noi stavamo lì durante l?emergenza. ?Il mostro?, come l?ho chiamato io, il terremoto, ha continuato a tormentarci. Perlustravamo una zona di quindici villaggi dagli ottocento metri in su, composti da poche case, gruppi di due o tre abitazioni. Sono agricoltori, poveri, che non vogliono lasciare le case e le bestie. Noi eravamo incaricati di fare i sopralluoghi per chiamare i vigili del fuoco o l?Enel. Poi dovevamo fare allacciamenti provvisori, montare le tende, fare fronte alle esigenze più immediate. Ogni giorno percorrevamo chilometri e chilometri di strade non asfaltate. La cosa più difficile è stata tenere i rapporti con la popolazione: non potevamo dire ?coraggio?, né ?mi dispiace?, le parole non hanno senso. Bisognava lavorare, far sentire la presenza continua dei volontari, dopo ogni scossa. A Cavallara abbiamo incontrato una coppia di anziani: «Siamo nati qui, vogliamo morire qui». Non è stato possibile convincerli. Altre volte ce l?abbiamo fatta. È un soccorso strano questo, fatto di rapporti, di amicizie silenziose. Ed è un soccorso che ora diventa più difficile: la gente, passato lo choc, sta realizzando di aver perso tutto. Il popolo umbro è un popolo di una dignità straordinaria, non hanno mai chiesto più del necessario. In un paesino una vecchietta che viveva in roulotte ci ha dato due cappotti per chi non ne aveva. Ci invitavano a pranzo con loro. Ho avuto una lezione di vita dalle donne umbre. A Prate ne ho incontrata una, sempre gioiosa. Mi ha spiegato: «Bisogna sorridere per dar coraggio ai nostri uomini». Quando i media mi hanno scovato ho vissuto un dramma: hanno raccontato la mia storia senza citare le parole che avevo detto sul volontariato, sul senso del mio impegno e di quello, straordinario, di tutti gli altri: che è stato lontano dai riflettori. Ho rischiato di tornare Yanez. Per fortuna ormai mi conoscevano. L?esperienza che ho vissuto è indimenticabile: sono tornato a casa contento di me. Ho incontrato un altro mondo, lontano anni luce dalle beghe politiche senza senso che in quei stessi giorni andavano in scena. Ora vedo le cose del mondo in maniera diversa. E sento l?obbligo morale di tornare da loro.


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