Cultura
Sudan: i criminali nome per nome
Linchiesta conclusa dal giudice italiano Antonio Cassese comprende lelenco di 51 responsabili dei crimini commessi in Sudan. Ecco i nomi più gettonati.
E così, dopo settimane di lavoro silenzioso dietro le quinte, la Corte penale internazionale dell’Aia ha deciso di aprire ufficialmente un’inchiesta contro i crimini perpetrati in Darfur dal febbraio 2003, data di inizio di una guerra civile che sul terreno vede opporsi da un lato il regime centrale di Khartoum e le milizie Janjaweed, dall’altro i ribelli dello Sla (Sudanese Liberation Army) e del Jem (Movimento per la Giustizia e l’Uguaglianza). Secondo fonti Onu, il conflitto ha fatto sino ad ora oltre 180mila morti e circa due milioni di sfollati, di cui 120mila rifugiatisi nel vicino Ciad.
In un comunicato diffuso oggi il procuratore capo, Luis Momeno Ocampo, l’ha definita come la piu’ grande mai lanciata dalla Corte. ”L’inchiesta richiederà la cooperazione delle autorità nazionali ed internazionali – ha dichiarato Moreno Ocampo, citato dalla nota – Sarà parte di uno sforzo collettivo che coinvolge l’Unione africana e altre iniziative per mettere fine alla violenza in Darfur e promuovere la giustizia”. Manco a dirlo, Khartoum ha già risposto picche. Il capo negoziatore del governo sudanese ai colloqui sulla crisi regionale, Majzoub al-Khalifa ha infatti giudicato “inaccettabile” l’idea che si possa “mettere sotto processo dei sudanesi”.
Agli inizi di aprile, il Consiglio di sicurezza dell’Onu aveva votato – con l’astensione degli Stati Uniti – una risoluzione per il deferimento davanti ai giudici della Corte dell’Aja dei presunti responsabili di abusi e massacri nel Darfur. Una commissione speciale istituita dal Palazzo di Vetro aveva preparato e consegnato al Tribunale una lista di 51 sospetti. Il provvedimento aveva pero’ creato tensioni con il governo di Khartoum, contrario a far processare suoi connazionali fuori dai propri confini.
Al termine di un’inchiesta esclusiva, Vita aveva pubblicato a fine aprile una lista di 51 nomi, tutti sospettati dalla Cpi di aver partecipato (in)direttamente ai crimini perpetrati in Darfur. La brusca accelerazione della vicenda ci ha convinti a riproporre ai nostri lettori i nomi che domani sbalzeranno molto probabilmente agli “onori” della cronaca.
29 aprile 2005 – Nessuno (o quasi) l?ha vista, ma tutti ne parlano. È l?ambitissima quanto temutissima lista nera stilata dal giudice italiano Antonio Cassese assieme ai membri della Commissione di inchiesta internazionale da lui capeggiata sui crimini perpetrati in Darfur tra il 1° luglio 2003 e la metà di gennaio del 2005. Si riduce a una quarantina di pagine, in formato A4, contenute in un pacco sigillatissimo firmato personalmente da Cassese e spedito da Ginevra lo scorso 25 gennaio a New York, presso il Segretariato generale delle Nazioni Unite.
La lista, consegnata il 5 aprile dal Segretario generale delle Nazioni Unite Kofi Annan al procuratore della Corte penale internazionale, Luis Moreno Ocampo incaricato di processare i responsabili delle atrocità perpetrate nelle tre province del Darfur, contiene 51 nomi. Tutte persone sospettate, «quindi nemmeno indiziate», precisa a Vita lo stesso Cassese, citando il rapporto della Commissione d?inchiesta reso pubblico lo scorso 31 gennaio, dove si parla «di gravi violazioni degli strumenti internazionali relativi ai diritti dell?uomo e del diritto umanitario internazionale commesse in Darfur, ivi compresi dei crimini contro l?umanità e dei crimini di guerra».
Documenti blindati
Sarà perché lo stesso Cassese ha chiesto nel rapporto e direttamente ad Annan di mantenere il segreto più assoluto su questa vicenda oppure perché il Sudan è alle prese con una pace delicatissima nel sud del Paese, sta di fatto che la lista è ?blindata?.
Senza entrare nei dettagli, il rapporto della Commissione di inchiesta internazionale chiama in causa i principali protagonisti della guerra civile che schiaccia il Darfur dal febbraio 2003: da un lato il regime centrale di Khartoum, le autorità governative presenti del Darfur e le milizie Janjaweed; dall?altro i movimenti ribelli, ossia lo Sla-Esercito di liberazione del Sudan e lo Jem-Movimento giustizia e uguaglianza. Di mezzo, troviamo alcuni ufficiali stranieri. Nella fattispecie, la Commissione cita «10 agenti di alto rango del governo centrale, 17 agenti delle autorità locali del Darfur, 14 membri delle milizie Janjaweed, 7 membri di vari gruppi ribelli e 3 ufficiali di un esercito straniero». Tutti «sospettati di portare una responsabilità penale individuale per i crimini commessi in Darfur». Che, è bene ricordarlo, hanno causato oltre 180mila morti e quasi due milioni di sfollati, 200mila dei quali rifugiatisi nel vicino Ciad.
I nomi illustri
Di nomi, intanto, non se ne vede l?ombra. E allora via con il valzer di liste alternative. «Tutte prive di ogni fondamento», assicura Cassese. La prima è apparsa il 22 ottobre 2004 nel rapporto del Congress Research Service (il Congresso Usa per intenderci) intitolato Sudan: The Darfur Crisis and The Status of the North-South Negociations. I nomi pubblicati su questa lista sono riscontrabili in quella più ampia fatta circolare il 9 marzo scorso dal prestigioso giornale online African Confidential. Si intitola Who is who in Darfur e si rifà ad una serie di policy-making ufficiali sfornati da governi, media, organismi internazionali di difesa dei diritti umani e, per l?appunto, il congresso americano.
Tra i nomi illustri, non poteva mancare il presidente Omar el Beshir, seguito dal suo primo vice, Ali Osman Mohamed Taha; dal ministro dell?Interno e rappresentante del presidente in Darfur, Abdel Rahim Mohamed Hussein; dal ministro degli Affari federali, Nafie Ali Nafie; dal potentissimo direttore generale del Servizio di sicurezza nazionale e di intelligence, Sallah Gosh; dai governatori del Sud e Nord Darfur, rispettivamente Al Haj Atta Al Mannan e Osman Mohamed Yusif Kibir; e così via, fino al coordinatore degli Janjaweed, Musa Hilal Musa. Stranamente i ribelli risultano assenti. Un vuoto colmato da Rachid Said Yacoub, caporedattore sudanese della rivista militare Ttu Monde arabe, il quale, al pari di molti altri esperti interpellati da Vita, riferisce «voci sentite qua e là» e che nel suo caso chiamano in causa «il leader ribelle dello Sla, Minnie Arkawi Minawi e un comandante locale dello Jem, nonché i tre governatori del Darfur e due colonnelli della Guardia presidenziale ciadiana».
I rapporti di Hrw
Tutti nomi che lasciano il tempo che trovano. Di fronte all?impasse, risulta quindi meno rischioso affidarci alle ipotesi. Per questo, basta spulciare le informazioni raccolte nel rapporto di Cassese. A pagina 16 si legge che «la Commissione ha esaminato dei rapporti pubblici sul Darfur». Domanda: «Quali sono quelli da cui ha ricavato informazioni più fedeli alle conclusioni raggiunte dalla Commissione?». Risponde Cassese: «Non ho dubbi: Amnesty International e Human Rights Watch». Di particolare importanza il rapporto stilato da Human Rights Watch e pubblicato nel maggio 2004 con il titolo Darfur destroyed. Hrw passa in rassegna, con impressionante precisione, un numero terribile di crimini, razzie, stupri, devastazioni compiuti dai Janjaweed in collaborazione con l?esercito governativo.
Sebbene da questo rapporto non si possa stabilire con certezza la responsabilità penale individuale dei dirigenti sudanesi nazionali e locali, né tantomeno degli alti responsabili militari, appare evidente la loro implicazione ?politica? nei crimini in Darfur. Tra tanti nomi manca però quello più illustre: il comandante degli Janjaweed, Musa Hilal.
Ma per far fronte alla crisi in Darfur, il regime è corso ai ripari mettendo in piedi un Comitato di coordinamento istituito ad hoc dal presidente Beshir. Negli ultimi 15 mesi, questo Comitato non si sarebbe mai riunito. «Non è pero detto che riunioni informali non si siano svolte», commenta la specialista del Sudan di Hrw, Leslie Lefkow. «E sta proprio lì la difficoltà di risalire la catena di comando e individuare i pianificatori dei crimini in Darfur».
Se si deve fare proprio un nome ?sicuro?, a sorpresa spunta quello che ormai è soprannominato il ?numero 52 della lista?. Si chiama Nasir Al Tijani Adel Kaadir. è il leader di una milizia composta da 350 membri provenienti dalla tribù Miseriyya. Al Tijani è responsabile della distruzione di numerosi villaggi nel Sud Darfur. Per questi fatti risalenti dal gennaio 2005, il rappresentante Onu in Sudan, Jan Pronk ha dichiarato che Al Tijani e i suoi collaboratori rischiano sanzioni Onu e addirittura l?apertura di un dossier accusatorio presso la Corte penale internazionale.
Nel frattempo, gli esperti continuano a concentrarsi sui 51 nomi della lista nera, la cui data di pubblicazione rimane ovviamente ignota. Forte di un?esperienza di oltre sette anni in Sudan, Leslie Lefkow ci vede tre buoni motivi. Tutti confidati a Vita ?a titolo personale?. La pubblicazione a breve termine della lista «rischia di compromettere la situazione in Darfur perché gli ufficiali nazionali e regionali che verranno sacrificati non avranno più nulla da guadagnare dalla pace. Secondo, se tra i futuri imputati ci saranno personalità di primissimo ordine come il presidente della Repubblica, el Beshir o il suo vice Taha, la comunità internazionale sarà in forte imbarazzo perché il processo di pace nel Sud del Paese vede la partecipazione di queste personalità politiche. Terzo motivo, la Corte penale internazionale adotterà la stessa strategia applicata nel caso di Charles Taylor, l?ex dittatore liberiano. Fino a quando è rimasto in Liberia, l?imputazione mossa dalla Corte speciale contro Taylor, per i suoi crimini nella vicina Sierra Leone è rimasta segreta. Ma non appena si è recato all?estero, l?imputazione è stata ufficializzata. Era l?unico modo per inchiodarlo. Quindi, la Corte aspetterà che i sudanesi incriminati oltrepassino le frontiere del Sudan per rendere pubblici i loro capi di imputazione. Ma ci vorranno mesi».
Non a caso, Cassese tiene a ricordare come «il procuratore della Cpi dovrà spulciare tutto il materiale che gli è stato rilasciato e decidere contro quali, tra i responsabili da noi sospettati, è opportuno avviare una procedura penale».
Il procuratore Ocampo dovrà fare i conti con nove cartoni stracolmi di documenti stampati, video e quant?altro speditigli da Cassese e dal Commissario Onu per i diritti umani, Louise Arbour. Ma le sorprese non finiscono qui. «Assieme ai documenti, c?è una seconda lista che comprende una trentina di presunti autori di crimini perpetrati in Darfur. Sono personalità di secondo rango, tutte di livello locale». Una lista di cui nemmeno l?area Africa di Human Rights Watch era al corrente. Di sicuro, una gatta da pelare in più per il procuratore capo della Corte.
I 4 super-indiziati della lista nera
Adam Hamid Mussa – Ex governatore del Sud Darfur
Il servo puntiglioso di Karthoum
Il governatore è la figura amministrativa più importante del Darfur. Se ne contano tre, in questa remota regione occidentale del Sudan (Sud, Nord e West Darfur). Adam Hamid Mussa non ha risparmiato energie per servire ?al meglio? lo Stato sudanese. A un punto tale che di fronte alle pressioni internazionali, il presidente el Beshir è stato costretto a rimuoverlo dal suo incarico. Era il 24 giugno 2004. E di guai, Adam Hamid Mussa, ne aveva combinati parecchi. Due documenti dimostrano che il suo ufficio ha autorizzato il reclutamento di Janjaweed. Il primo documento risale al 22 novembre 2003 e descrive la visita compiuta quattro giorni prima da Mussa (insieme al ministro dell?Interno, Ahmad Haroun) nel campo Janjaweed di Qardud. In quell?occasione ordinò ai leader locali di «reclutare per Khartoum 300 uomini armati a cavallo». Un altro documento, datato 2 marzo 2004, riferisce di una direttiva che incita il commissioner di Nyala, la capitale del Sud Darfur, a formare un Comitato di sicurezza per «espellere i ribelli e fornire munizioni e provvigioni nei nuovi campi (Janjaweed) al fine di garantire la sicurezza nel Sud-Ovest dello Stato». La direttiva coincide con il periodo di picco delle violenze perpetrate contro le popolazioni Fur in Sud Darfur.
Musa Hilal Comandante dei Janjaweed e della Brigata Buffalo
Lo sceicco terrore del darfur
«Musa Hilal è un uomo pericoloso per il governo sudanese e la sua testimonianza potrebbe rivelarsi molto interessante alla Corte penale internazionale». Questo il commento del direttore di Human Rights Watch, Peter Tarikambudde in seguito all?intervista rilasciata dallo stesso Hilal il 27 settembre 2004. Un?intervista nella quale, dall?alto del suo metro e 93, Hilal assicura che «sul terreno, tutti i combattenti sono diretti da alti comandanti militari» e «ricevono ordini dal centro di comando occidentale e da Khartoum». Ad avvalorare le sue dichiarazioni è una direttiva emessa il 13 febbraio 2004 dall?ufficio di una sotto-prefettura del Nord Darfur in cui le autorità invitano tutte le «unità di sicurezza della località di autorizzare il proseguimento delle attività dei mujahedeen (i membri delle milizie paramilitari Forze di difesa popolare, ndr) e dei volontari sotto il comando dello Sheikh Musa Hilal nelle regioni del Nord Darfur». Noto per le sue ripetute aggressioni contro i civili (nel 97 finì in galera per aver ucciso 22 persone), questo sceicco arabo della tribù di Um Jalloul gestisce il principale campo Janjaweed del Darfur, nei dintorni di Misteriya, a Kebkabiya, nella regione Ovest.
Ali Osman Muhammad Taha Primo vice presidente della Repubblica
Un nobile alla regia della repressione
U n carbonaro balzato solo di recente agli ?onori? della cronaca, appartenente alla nobiltà più blasonata del Sudan (quella tribale dei Shaïd-Jiya) e da sempre promotore influente di un Islam radicale. Questo in sintesi il profilo di Ali Osman Taha, il regista della campagna repressiva del regime in Darfur. Almeno secondo quanto sostiene l?intelligence americana, convinta tuttavia che il vice presidente sia una figura intoccabile del regime. E non tanto perché ha frequentato la stessa scuola dell?attuale presidente el Beshir (la Khartoum al-Gadeema), ma per le alleanze che è riuscito a creare con le figure più potenti dei servizi di sicurezza sudanesi. In Sudan c?è chi invece vorrebbe mettere la parola fine a una carriera politica iniziata nel potentissimo sindacato degli studenti, proseguita all?interno del Fronte islamico nazionale (Fni, ufficialmente scioltosi nell?attuale partito governativo National Congress Party) ed entrata a pieno regime nel 1989 quando fomentò il colpo di Stato contro l?ex premier Al-Mahdi. Da ministro degli Affari sociali, pianifica l?islamizzazione forzata del Sud Sudan; da vice presidente, sigla il 9 gennaio 2005 un accordo di pace con i ribelli sud sudanesi dello Spla – Sudanese People?s Liberation Army che pone fine a 20 anni di guerra civile.
Gen. Sallah Abdallah Gosh Direttore generale dei servizi segreti
L?ingegnere che manda bombe sui villaggi
«Le milizie ribelli attaccano il governo partendo dai villaggi. Secondo lei, il governo che cosa deve fare? Attaccare e bombardare i villaggi». Il ragionamento non fa una piega ed è tratto da una delle rarissime interviste rilasciate dall?enigmatico Sallah Abdallah Gosh. Per alcuni, una colonna portante del regime. Per altri, un ?giocattolo? nelle mani del vice presidente Taha, al quale lo lega l?appartenenza alla stessa tribù e l?implicazione nell?attentato contro Mubarak del 1995. Il suo utilizzo nella guerra in Darfur e nella lotta al terrorismo (cui il Sudan, pur noto per aver accolto Bin Laden, ha aderito dopo l?11 settembre), ne ha fatto l?emblema della politica ?doppia? attuata da Khartoum nei confronti della comunità internazionale. Ma per questo ingegnere formato all?università della capitale, giunto di prepotenza in seno ai servizi segreti dopo il golpe militare del 1989, poi ?prestato? all?industria militare sudanese e pronto a riprendere servizio nel 1999, la partita con la Corte rimane apertissima. Molto dipenderà dal braccio di ferro con l?amico Taha. Uno scontro frontale che vede il vice presidente deciso a collaborare con la comunità internazionale e Sallah Gosh invece alla guida dei falchi.
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