Welfare

Il campione pompato è solo un perdente

Parla Gino Rigoldi

di Redazione

C?è sport e sport, va bene. Da una parte ci sono i campioni di incasso, dall?altra c?è chi fa sport perché così non gli vengono i dolori quando passa gli ?anta? o per arrivare in forma all?appuntamento con la spiaggia e il costume da bagno. A questi qui mica verrà in mente di doparsi? Ma forse tutta questa differenza non c?è, insinua don Gino Rigoldi, nemmeno quando si parla di doping. Lui che da una vita lavora nel campo dell?educazione, e che da sempre difende lo sport come strumento formativo, oggi rifiuta che si possa dividere il mondo dello sport in compartimenti stagni, e accettare che il business-sport abbia regole diverse, magari proprio cominciando dalla faccenda doping. Vita: Non le sembra che questa distinzione sia sempre più evidente? Gino Rigoldi: Sa come si dice: «il pesce puzza sempre dalla testa». Poi forse non è neanche vero, e ciascuno puzza perché puzza lui. Il fatto è che lo sport ha una valenza educativa punto e basta, anche se non vuole averla e anche se a quelli dei campionati di serie A non gliene frega niente. Di riflesso, però, lo sport genera una cultura che parla ancora di competizione leale, di rispetto delle regole. Se c?è di mezzo la droga, il messaggio che arriva allo spettatore è un messaggio drogato. Vita: Ma se i tifosi sapessero che il doping fa parte delle regole del gioco, che problema ci sarebbe? Rigoldi: Sarebbe comunque un tradimento. I tifosi si identificano con la propria squadra: sono io che gioco, sono io che vinco o perdo. Le competizioni sportive oggi hanno sostituito le idealità e l?avventura. Non è che lo sport per la gente sia solo una scusa per sfogarsi o per incazzarsi come maiali. Fare il tifo per una squadra spesso è l?ultima dose di avventura rimasta nella propria vita, in un quotidiano molto normale, molto ordinario? Chi si è identificato con te in qualche modo ti ha incaricato di essere il suo rappresentante nella sua avventura, e dopandoti tu lo hai fregato. Vita: Quindi non condivide l?ipotesi di depenalizzare il doping nel business-sport? Rigoldi: Questo è un ragionamento tipico del business. Ma andiamo avanti a ragionare su questo piano: quale sarà la reazione degli spettatori-consumatori? Si può essere tifosi di grandi atleti, ma mi sembra difficile essere tifosi di gente dopata o drogata, che è in campo solo per fare il suo varietà. In questa prospettiva io devo essere un consumatore e basta. Mi sembra un ragionamento perdente. Se si dicesse che Inter, Milan, Juve e così via possono usare o non usare il doping come credono e mandare in campo giocatori sconvolti di cocaina o anfetamine perché quel che conta è solo dare una bella esibizione davanti a un pubblico che applaude atleti tecnicamente bravi, io credo che l?investimento ideale che i tifosi nutrono per la propria squadra verrebbe immediatamente azzerato. Un tifoso che si accorge che il calciatore di cui è innamorato si comporta in maniera scorretta, smette di sentirsi coinvolto. Vita: C?è un rapporto tra doping e uso di droghe? Rigoldi: In fondo di questo si tratta. Ma questa storia di garantire prestazioni brillanti e di essere sempre efficienti riguarda lo sport, il mondo dello spettacolo e tanti altri settori. Forse è una questione più di immaturità che di disonestà. C?è sempre più gente con l?ambizione di essere ciò che non è, di simulare una potenza che non è la sua. Mi sembra una debolezza di personalità, che in fin dei conti nasce da una povertà. Vita: La lealtà nei confronti del tifoso riguarda i grandi. Ma uno sportivo qualunque perché dovrebbe dire di no al doping? Rigoldi: Il primo dovere uno ce l?ha nei confronti di se stesso. Credo che innanzitutto ci sia un?etica che riguarda la cura del proprio corpo e la necessità di tutelarsi da eventuali malattie o da effetti secondari che possono derivare dall?assumere sostanze improprie, in tempi e in quantità impropri. La propria salute non deve essere sacrificata ai successi sportivi. L?altro elemento è il più classico dei presupposti dello sport: la lealtà nei confronti dell?avversario. Vita: Condivide la decisione del Coni di aumentare i controlli a sorpresa? Rigoldi: Si dice sempre che lo sport è educativo: se è educativo il fatto che io ti sorveglio in ogni cosa che fai? È un metodo un po? poliziesco, e forse anche umiliante. Quando si continua a controllare una persona per vedere se sbaglia va a finire che questa è incentivata a sbagliare. Bisognerebbe far nascere un maggiore senso di responsabilità nelle società sportive e dentro le squadre, dove ancora si ragiona troppo poco sul doping, sulla sua scorrettezza e sugli effetti che ha sul fisico delle persone. Io seguirei di più la linea educativa, avendo fiducia nella lealtà degli sportivi. I furbi ci saranno sempre e quindi ogni tanto bisognerà fare anche questi controlli, però li vedrei come un?eventualità sfortunatissima, a cui attribuire punizioni esemplari. Vita: Come fare allora per cambiare le cose? Rigoldi: Dobbiamo tornare a ripetere le parole della coscienza morale e avere il coraggio di dire: «Signori miei, l?etica è una cosa di cui non possiamo fare a meno». Non per fare i moralisti, ma per dire che uno è dignitoso se sa dare valore agli altri, se è capace di relazioni, se è capace di tutelare la giustizia, quella che riguarda lui e quella che riguarda gli altri. Per etica intendo quello che diceva Lévinas: l?etica nasce dalla risposta opposta a quella di Caino, quando uno accetta di dire «Io sono il custode di mio fratello». Vita: Un impegno su tutti? Rigoldi: Questi discorsi dell?etica vengono sempre appiattiti sul ?che guadagno c?è?. Invece nello sport come in altri campi l?etica dice certo l?onestà, la giustizia, il rispetto dei diritti, ma anche la competenza, la ricerca di linguaggio, il dovere dell?intelligenza di capire cosa è successo prima e cosa succederà dopo? Forse oggi c?è bisogno soprattutto di un linguaggio nuovo, perché queste cose vengono anche dette, ma non si capiscono, non le si sente come rivolte a sé, suonano incomprensibili. Dobbiamo ricominciare a dirle in tutte le lingue e in tutte le maniere, e magari anche inventarcene di nuove. Intervista a cura di Sara De Carli e Paolo Manzo Sport doping libero? Controlli incrociati Il controllo incrociato sangue-urine sui calciatori a fine gara (volontario e non a sorpresa) è stato ufficialmente inaugurato nel gennaio del 2004 con il match Bologna-Empoli. La Federcalcio ha, quindi, operato assai prima del recepimento italiano del protocollo 2005 dell?agenzia mondiale antidoping, la Wada. Nel primo periodo di controlli incrociati sangue-urine ci furono casi di rifiuto, e a dir di no ai prelievi furono sia giocatori del Brescia sia del Napoli. Addio Nazionale In quello stesso mese di gennaio, il no di 13 calciatori portò a una ferma presa di posizione del presidente della Federcalcio, Franco Carraro: «Chi si rifiuta di fare il prelievo del sangue non solo sarà sottoposto al controllo epo sulle urine, ma sarà sottoposto nel corso del campionato a controlli a sorpresa». Il capo della Figc non aggiunse che il rifiuto comportava anche l?esclusione dalla nazionale: «Chi non accetterà non verrà chiamato in azzurro», confermò Carraro in consiglio federale. Brutte sorprese Il primo controllo antidoping a sorpresa è del 13 maggio 2004 su due giocatori del Siena. Poi un lungo stop in attesa del recepimento della nuova normativa Wada, avvenuta all?inizio di quest?anno. Lo scorso 23 gennaio, dunque, Bologna-Cagliari inaugurò la seconda stagione dei controlli incrociati, anche per quest?anno assolutamente non obbligatori. Tutto bene, sino al rifiuto dei giocatori del Milan, Gattuso e Pancaro, sorteggiati per il controllo dopo Roma-Milan, lo scorso 20 marzo.


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