Formazione

Cinema/1Ragazzi, chi è sano ha la febbre

Davanti ad una platea di centinaia di giovani, il regista romano ha fatto una lezione controcorrente. "Diffidate dei maestri.E fidatevi dei testimoni" (di Damiano Fedeli).

di Redazione

«Preferirei che vendessero il Colosseo piuttosto che si perdesse la creatività». Alessandro D?Alatri parla del suo ultimo film davanti a una platea di diciottenni. Ragazzi degli ultimi anni delle superiori venuti a Firenze a sciogliere i dubbi sul proprio futuro fra gli stand del Salone dello studente, organizzato dal mensile Campus. Il cinquantenne regista romano, attento osservatore delle dinamiche sociali, tiene un incontro e racconta cosa c?è dietro La febbre. La pellicola racconta la storia di Mario – Fabio Volo, già protagonista del precedente film di D?Alatri, Casomai – che rinuncia al posto fisso per eccellenza, quello in Comune, per realizzare il sogno di aprire un locale. «Chi non ha mai avuto un desiderio simile?», chiede D?Alatri. «Eh, sì, aprire un bel pub», conferma sorridendo un gruppo nelle prime file. «Ma non tutti», riprende il regista, «amano il rischio di mettersi in gioco. La febbre parte da qui. Ed è, così, una dichiarazione di amore e rabbia per l?Italia. Un Paese che amo, in cui non c?è nulla che non mi piaccia. Ma in cui si è perso l?orgoglio tipico di un?identità creativa che ci caratterizzava. Il lavoro è diventato penalizzante e le persone tendono solo a mantenere un basso profilo». I ragazzi ascoltano e pongono la questione degli sbocchi di lavoro. D?Alatri li incoraggia, mettendoli però in guardia: «Quando cominci a lavorare, senti una chiamata, senti che c?è bisogno di te. Arriva però qualcuno che ti blocca, che ti dice cosa fare e basta. Sembra quasi che gli imbecilli stiano tutti al posto giusto. E allora si comincia a dire: ?Tengo famiglia, salvo la pelle. Me ne sto buono?. No, non va bene! Bisogna ribaltare la prospettiva: mi impegno, mi metto in gioco proprio perché ?tengo famiglia?. Lavorare significa lavorare bene. Sicuramente, poi, ne seguono i guadagni. Oggi si fanno milioni di ore di sciopero per le tutele, ma nemmeno cinque minuti per la qualità delle cose che si fanno: mio padre era un operaio ma, grazie alla passione, quello che faceva era per lui fonte di orgoglio». La realizzazione viene allora solo dal lavoro? «No. I volontari, ad esempio, sono persone straordinarie nella nostra società, proprio per la capacità di mettere in circolo il loro amore. E se non si mette amore nel fare le cose, non c?è niente». Le parole ?flessibilità? o ?precariato? a dei liceali ancora non dicono molto: gli sguardi si smarriscono quando vengono pronunciate. Anche se è una realtà con cui presto potrebbero trovarsi a dover fare i conti, quella di un lavoro instabile. «Attenzione: uguaglianza di diritti non vuol dire livellamento», ammonisce il regista. «C?è un sentimento comune di persone che si lamentano, ma la mancanza della garanzia del posto fisso può essere un?opportunità per mettere in moto la fantasia. Purtroppo, però, ci sono degli ostacoli. Oggi un giovane, ma non solo, che sia motivato e si ponga un obiettivo anche minimo, deve affrontare mille difficoltà. Il nostro Paese è apprezzato per il design, il cinema, la moda. Perché questo non viene gratificato?». Ai ragazzi D?Alatri indica a modello imprenditori come Giovanni Rana o Giovanni Borghi, mister Ignis, venuti dal nulla, ma con un sogno in tasca: un piatto di tortellini o un frigorifero in ogni casa: «Queste sono persone straordinarie. Per essere imprenditori non occorre diventare Agnelli, l?importante è comunque avere un obiettivo». A chi gli chiede della propria fede, D?Alatri dice di essere un ?cattolico distratto?. Ringrazia Giovanni Paolo II per aver liberato il mondo dall?ideologia («la cosa più innaturale che esista»), ma soprattutto si richiama a Paolo VI e citandolo conclude: «Questo Papa colto disse: ?È finita l?epoca dei maestri, comincia quella dei testimoni?. Ragazzi, diffidate dei maestri. Fidatevi solo dei testimoni».

Damiano Fedeli


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