Cultura

L’insegnamento ai volontari letto da un laico. Inattuale eppure planetario

La sua è una sfida non chiusa, ma che spinge a cercare ancora. Come disse in occasione del Giubileo, ci vuole "nuova fantasia nella carità".

di Marco Revelli

C?è qualcosa che cattura nel discorso di Karol Wojtyla, anche al di là di quegli aspetti del suo pontificato che possono apparire più controversi (e che per un laico impenitente come me non sono né pochi, né di poco conto). Qualcosa che lo rende vicino, e condiviso, anche al di là del muro di quella fede così intensamente, e visceralmente, sua, di quel cattolicesimo così polacco (così esistenzialmente radicato, e tradizionalisticamente ritualizzato, così poco occidentale). Forse proprio per gli elementi di inattualità di quel suo modo di concepire il senso e il mondo. Me lo sono chiesto più volte, in questi giorni, in che cosa consistesse questo elemento di condivisione, al di là delle distanze, che nel suo allontanarsi ci fa sentire così spaesati. E mi pare possa essere sintetizzato in due aspetti, non secondari. Il primo è il tema della pace. L?intransigenza con cui ha sempre posto il valore della pace, affidandolo alla forza della Parola. Facendo della Parola (il più non-violento dei mezzi) lo strumento esclusivo dell?intervento nel mondo e della sua trasformazione. Senza quell?affidamento assoluto al valore della Parola, probabilmente la caduta del socialismo reale non sarebbe stata così pacifica e incruenta. Senza quell?affidamento totale al Logos, probabilmente la guerra che ha fatto il suo osceno ritorno sulla scena globale fin dal 1991 (dalla sciagurata prima guerra del Golfo) avrebbe colonizzato le menti in forma ben più devastante di quanto non abbia fatto, e ci avrebbe trascinato tutti in uno scontro di civiltà dalla portata incalcolabile. Il secondo è l?idea della comunità universale. L?immagine, condivisa e riprodotta, di un?umanità assunta davvero come un tutto, interdipendente e unitario nella dignità e nei diritti. L?estensione del concetto di prossimo alla scala planetaria. L?aveva scritto, d?altra parte più di 35 anni fa, come docente di etica a Lublino, in quello che può essere considerato il suo più importante contributo filosofico, il libro Persona e atto: «Nel concetto di prossimo si nota la fondamentale relazione reciproca di tutti gli esseri umani nell?umanità. Il concetto di prossimo indica dunque la realtà più universale e anche il più universale fondamento della comunità tra gli esseri umani. La comunità nell?umanità è infatti il fondamento di tutte le altre comunità». Non so quale rapporto avesse con Ernesto Balducci, probabilmente di forte differenziazione e forse anche di conflitto per le opposte visioni di politica interna nella Chiesa, ma indubbiamente è difficile ignorare l?assonanza tra queste parole e l?idea balducciana de L?uomo planetario. All??uomo planetario? destinato ad abitare un pianeta unificato e unico, Wojtyla ha prestato (a modo suo, naturalmente, con il suo stile, la sua particolare fede, i suoi vizi e le sue virtù) il suo volto e la sua voce: in qualche misura si è fatto specchio di quell?umanità globale, della sua solitudine, della sua aspirazione alla giustizia. Il celebre messaggio ai volontari – del 5 dicembre del 2001, in occasione dell?Anno internazionale del volontariato – ne è una testimonianza esemplare. In esso definiva l?opera del volontario «un raggio di speranza che squarcia la tenebra della solitudine», un «fattore peculiare di umanizzazione»; e il mondo del volontariato «un esercito di pace diffuso in ogni angolo della terra» (in qualche modo la nuova città celeste in itinere di agostiniana memoria). Un anno prima, nella Lettera apostolica Novo millennio ineunte aveva ricordato: «Il nostro mondo incomincia il nuovo millennio carico delle contraddizioni di una crescita economica, culturale, tecnologica, che offre a pochi fortunati grandi possibilità, lasciando milioni e milioni di persone non solo ai margini del progresso, ma alle prese con condizioni di vita ben al di sotto del minimo dovuto alla dignità umana». E concludeva invocando una «nuova fantasia della carità», a sottolineare il carattere inedito del compito. La portata del tutto nuova della sfida, che spinge a cercare ancora. Quella ricerca, comunque lo si giudichi, non l?ha mai interrotta, percorrendo migliaia e migliaia di chilometri, nel tentativo di trovare parole per dire il mondo nuovo in cui siamo precipitati, e la domanda di senso che proviene dalla sua insensatezza. Per questo quell?immagine terminale, del volto contratto nella smorfia di dolore e disperazione di fronte alla parola che non esce, e resta congelata nella gola, è così drammatica. Come l?Urlo di Munch. Come la rappresentazione di un mondo che non riesce più a dirsi. E quindi neppure a ?redimersi?. Dopo di lui la strada resta lunga. E siamo, in qualche misura, più soli.


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