Economia
Equosolidale: quante domande dietro al boom.
Per il fairtrade è un momento doro.Forse troppo? Un libro mette la pulce nellorecchio. Anche alle coop.
Ha poco più di quindici anni, e come tutti gli adolescenti è ribelle e fragile al tempo stesso. Si nutre di utopie e guarda costantemente avanti, a ciò che non è ancora, pur restando legato a doppio filo a ciò che non è più. Ne è consapevole, e nonostante alcune boutade edipiche, non ha intenzione di recidere il cordone ombelicale. è il commercio equo e solidale, ritratto al giro di boa dell?adolescenza da Fabio Gavelli e Lorenzo Guadagnucci, in un libro intitolato La crisi di crescita.
SocialJob: I fatturati parlano di un boom del commercio equo; perché voi la chiamate ?crisi??
Fabio Gavelli: Nell?ultimo anno in Italia le più grandi centrali di importazione hanno visto una crescita che va dal 30 al 60%. Un boom che pone delle domande: con questi numeri, i valori e gli obiettivi con cui il commercio equo è nato sono mantenuti o si sono persi? Una funzione storica è quella di critica verso il commercio tradizionale: lo può fare con un fatturato che lo pone dentro al mercato? Nella crisi di crescita occorre fare delle scelte e darsi regole.
SocialJob: Come decidere di entrare nei supermercati?
Gavelli: Quella è una scelta irreversibile. L?Italia e la Spagna sono i Paesi in cui c?è una concezione più militante del commercio equo, il mondo delle botteghe è variegato e a volte si rischiano scontri interni. Ma questo modello è il più avanzato, e ha dato anche i risultati migliori. Da noi l?ingresso nella grande distribuzione non ha danneggiato le botteghe.
SocialJob: Quali le sfide per il futuro?
Gavelli: Sfide strutturali. Un passo importante è stata l?istituzione del Registro del Commercio equo e solidale e dell?Assemblea generale del commercio equo e solidale (Agices). Un?altra sfida sarà quella di ampliare la gamma dei prodotti, puntando su quelli che consentono di spostare gli acquisti. Finora si sono offerti beni superflui, il futuro invece è dei prodotti di cui non si può fare a meno: casalinghi, mobili, abbigliamento. Prodotti di massa come jeans, t-shirt e scarpe sportive sarebbero davvero incisivi sul sistema. Siamo di fronte a un salto qualitativo enorme: il passaggio dall?artigianato all?industria. Non scordiamo che la filiera dell?abbigliamento, con la delocalizzazione e le condizioni di lavoro di chi produce scarpe, è una delle più inique.
SocialJob: C?è già qualche esempio?
Gavelli: Esistono alcuni progetti di frontiera che dimostrano che il circuito del commercio equo è capace di avviare rapporti proficui con imprese private: i palloni in Pakistan, le scarpe Adbusters, felpe e t-shirt in Svizzera e i jeans Kuyichi, prodotti da una joint-venture controllata per un terzo dai produttori, per un terzo dalla banca alternativa olandese Triodos Bank e per la restante parte da Stimulans, una società di congregazioni religiose per promuovere l?imprenditoria sociale. In Italia c?è un progetto per produrre stivali in Chapas, ma a livello semiartigianale. Buone prospettive vengono dal Tavolo nazionale per il cotone bio ed equosolidale, nato a metà del 2004 per promuovere la costituzione di una filiera del tessile biologico ed equosolidale a livello industriale. Sono una ventina di realtà: botteghe del mondo, centrali di importazione, imprese, istituzioni, associazioni.
SocialJob: E per i punti vendita?
Gavelli: I nuovi prodotti esigeranno una diversa distribuzione: spazi più grandi, in centro, un campionario costantemente rinnovato. E nuovi sbocchi sul mercato. Occorre radicarsi sul territorio, crescere in numero ma soprattutto in professionalità. A questo proposito ben vengano anche i piccoli imprenditori, se condividono i valori e gli obiettivi del commercio equo.
SocialJob: Il passaggio alla produzione industriale quali problemi porrebbe?
Gavelli: Per un prodotto agricolo o artigianale verificare i passaggi della filiera è semplice. Per un prodotto industriale molto meno. Nella lavorazione di un paio di jeans sono coinvolti 14 Paesi: è come seguire una biglia impazzita. Serve una maggiore capacità di controllo, e una discussione su alcuni criteri del commercio equo. Nessuna industria potrebbe mai soddisfare i parametri attualmente utilizzati, primo fra tutti quello della struttura democratica nel gruppo dei produttori: sono necessari compromessi, senza tradire il senso del commercio equo.
SocialJob: E se l?apertura alle industrie si rivelasse un cavallo di Troia?
Gavelli: Le multinazionali si sono rese conto dell?attenzione etica di molti consumatori. Molte si sono fatte un green washing, dandosi ?una mano di verde?. Sono preoccupato perché oggi aziende come Chiquita rischiano di soddisfare gli standard di certificazione di Flo. Ma non basta che alcune piantagioni soddisfino certi parametri per entrare nel commercio equo e solidale. Due criteri minimi mi sembrano questi: il 50% dei luoghi di produzione devono rispettare le regole del commercio equo e l?azienda deve essere disponibile a verifiche a sorpresa. Senza questo, la concorrenza è sleale.
Chi è
Fabio Gavelli, 44 anni, romagnolo, è giornalista del Resto del Carlino. Esperto di e economie solidali e commercio equo, collabora con Altreconomia.
Il libro
Le prospettive del commercio equo e solidale.
Il titolo scelto dall?editore, La crisi di crescita (Feltrinelli, pp. 168, euro 8), aveva sorpreso anche loro: ma a qualche mese di distanza non lo giudicano poi tanto male. Più importante è il sottotitolo: lo sguardo di Fabio Gavelli e Lorenzo Guadagnucci è tutto rivolto al futuro e alle nuove sfide che attendono il commercio equo.
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