Famiglia

Il mio don Cesare un cuore in ceppi

Da Chisinau a Lecce, le giornate per lui durano sempre troppo poco. Ci impelaghiamo in infinite chiacchierate sul bene e sulla vita, noi due.

di Claudio Camarca

Chisinau, febbraio. Quattordici gradi sotto zero. Don Cesare si inginocchia e solleva il tombino. Uno sbuffo di vapore bollente scheggia il sipario nevoso che continua a calare. Intorno, poche automobili, la sirena di fine turno alla fabbrica, lontane stelle ghiacciate. Scendiamo sotto terra. I pioli della scaletta sono masticati dalla ruggine. I miei scarponi si imbevono della melma che riveste il pavimento. Quaggiù, è un caldo soffocante. Umido, sudato. I bambini ci guardano. Senza dire. Senza fare. Sette bambini. Scrutano gli intrusi restando rigidamente abbracciati ai tubi macilenti dentro i quali scorre l?acqua bollente sparata nei muri delle abitazioni. Don Cesare dice eccoci qua. Strofina le mani. Apre il volto in un sorriso. Io e Cesare siamo amici. Ci siamo conosciuti allorché capitai nel Centro di accoglienza Regina Pacis alla ricerca di storie da raccontare in un saggio intorno e dentro al mondo delle migrazioni. Mi accolse in quel singolare modo che ha lui. Abbracciandomi di parole e facendomi sentire uno di casa. Tanto da potermene andare liberamente in giro per il Centro. Senza controlli, senza guide. Per 40 giorni ficcai il naso per ogni dove e ascoltai e domandai. Mai una porta mi fu sbarrata. Mai una sola curiosità rimase inevasa. Annotavo sul mio taccuino. Senza rendere conto a nessuno dei miei scritti. Il libro uscì poi per i tipi della Rizzoli. Don Cesare lesse e mi conobbe meglio. Credo gli piaccia la mia scrittura. Mi chiese che piani avevo per il futuro. Domandò un aiuto. Accettai di provare a darglielo. Dal febbraio 2003 sono un collaboratore esterno della Fondazione Regina Pacis. Faccio un poco di tutto. Come a dire che faccio un poco di niente. Principalmente, io e don Cesare ci impelaghiamo in infinite chiacchierate. Sul senso della Vita e sul senso del Bene. Su come prestare servizio al povero. Come soccorrere le ragazze prigioniere del carnefice che le costringe a vendersi. Cosa rispondere alla moltitudine che ti prega per un permesso di soggiorno. Come assolvere alla richiesta di Pace, alla richiesta di essere amati. C?è da dire, in verità, che queste nostre chiacchierate si dipanano a mozzichi e bocconi, come dicono a Roma. Perché le giornate di Cesare durano sempre troppo poco. Come avessero ore troppo brevi. Ore di pochi minuti. Frazionate da decine di necessità. Decine di bisogni primari. Le bambine strappate ai mercanti hanno ad esempio cattive abitudini. Abituate a essere considerate merce di scambio, faticano e molto a guadagnare stima in se stesse, dignità propria della persona umana. Sbandano. Inciampano nel primo disgraziato portatore di favole. Sei bella. Ti amo. Ti sposo. E loro ci cascano. Vanno innocenti incontro all?Uomo Nero. Precipitano nella delusione, e da lì nella disperazione. Spesso accompagnata da una gravidanza che non si vuole portare a termine. Quasi che liberarsi di quel figlio possa servire a sgombrarsi la mente dalla sofferenza di essere riconosciute sempre e soltanto come allegro passatempo. Come giocherello. Trastullo. Don Cesare ascolta. Prende le mani della bimba tra le sue. Riflette ad alta voce, carezzando i capelli e sorridendo. Promette di farsi carico lui di tutto. Promette di essere padre e nonno e fratello. Di non abbandonare quel cammino lastricato insieme. Quindi, si rivolge a me e riprende la chiacchierata sul senso della Vita e sul senso del Bene. I bambini di Chisinau non hanno niente da dire. Parlano poco. Tengono fame e sonno e paura di non riuscire a superare la notte. Di incontrare anche loro l?Uomo Nero. Capace di venderli un pezzo alla volta. Di scaraventarli sul bancone del mercato e sezionarli con la mannaia. Hanno voglia di essere accompagnati nelle case rifugio di don Cesare. Di giocare sul tappeto e vedere i cartoni animati e di fare i compiti con le suore e i volontari. Hanno voglia di svegliarsi bambini. Riscaldati dal calore di un uomo bianco, in grado di prendersi sulle spalle i dolori e i torti subiti dal povero, fino a incarnarsi in esso, e lasciarsi gettare in ceppi in galera, uomo tra gli uomini, parola di Pace schiacciata dalla parola dei forti.


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