Non profit

Il mondo è davvero irraccontabile?

Per raccontare la realtà bisogna innanzitutto volerle bene.

di Giuseppe Frangi

hi l?avrebbe detto che il mondo della comunicazione globale, della libertà d?informazione diventato dogma condiviso, delle notizie che arrivano istantaneamente in tutte le case del globo (quanto meno in quella parte di globo dove le case ci sono), sarebbe diventato un mondo in gran parte irraccontabile? Eppure, a guardarlo da vicino, è davvero così. Nessuno oggi, per esempio, può raccontare l?Iraq, se non giornalisti americani embedded, che si muovono incapsulati come extraterrestri e quindi vedono un Iraq da telefilm. Nessuno o quasi racconta più la Cecenia, altra terra ?proibita?, che in dieci anni di guerra è stata ridotta a un rudere e che vive di sussulti ogni qualvolta che una tragedia, come quella di questi giorni, la sbatte per un istante in prima pagina. Nessuno racconta la miseria immensa che attanaglia una Russia ridotta in gran parte della sua popolazione letteralmente alla fame, un immenso Paese in crollo demografico verticale. Nessuno ci racconta più che fine abbiano fatto le migliaia di clandestini che sino a qualche mese sembravano l?emergenza nazionale numero uno e che oggi sono improvvisamente svaniti nel nulla. Che ne è di loro? O meglio, che cosa ha fatto di loro la Libia, Paese a cui l?Italia ha delegato di risolvere il problema? E che dire del silenzio mediatico che è calato su Banda Aceh, la terra dove lo tsunami ha fatto 150mila morti? L?elenco, come facilmente immaginerete, potrebbe continuare a lungo. E potrebbe lasciare a buon diritto un senso profondo di scoramento e di impotenza. Anche perché chi cerca di rompere le regole, magari un po? improvvidamente, come ha fatto Giuliana Sgrena andando a Falluja quel maledetto 4 febbraio, si trova inghiottita dal fanatismo cieco che la guerra ha generato (ed è ingenerosa tacciarla di non professionalità; piuttosto interroghiamoci quante briglie siano imposte oggi alla cosiddetta professionalità). Così, incurante e impotente davanti ai grandi fenomeni che travagliano il mondo, il giornalismo si riduce ad affare di cortile, a teatrino dei soliti noti, ad avvelenamento artificioso della vita quotidiana. Oppure a retorica che spennella un po? di sentimentalismo per qualche ora e poi riprende il solito tran tran delle beghe da palazzo. Naturalmente questo giornale, nel suo piccolo, è nato per scompaginare un po? le carte e per dimostrare che c?è un modo e una possibilità di raccontare il mondo. Che anzi il mondo, anche quello più vicino a noi – come ha dimostrato Aldo Bonomi confezionando il primo bellissimo numero di Communitas – aspetta solo che qualcuno, raccontandolo, lo aiuti a prendere coscienza di quello che è e di dove sta andando. Ma per raccontare la realtà bisogna innanzitutto volerle bene; bisogna ?amarla? per usare una parola che è l?unica che contiene la grandezza della scommessa in gioco. Il che significa accettarne anche i misteri, le ferite aperte, il dolore di situazioni per le quali non esistono ricette. Ma che vanno raccontate, con dentro tutto questo carico di dolore. Se non si riparte da questa umiltà e da questa passione dovremo accettare l?idea che il black out oggi non riguardi solo l?Iraq, ma riguardi noi.


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