Emergenze
Myanmar un mese dopo il terremoto: la crisi dimenticata non si ferma
Oltre 3.700 vittime e 5.100 feriti. «Il Myanmar già prima del sisma viveva una delle crisi più dimenticate nel mondo», dice Guido Calvi, responsabile progetti di Fondazione Avsi. «Dal 2021 c’è un conflitto di cui si parla poco e interessa poco. E non è uno dei Paesi con maggiore finanziamento internazionale alla cooperazione»
di Anna Spena

«Non dimenticate il Myanmar», è questo l’appello che lancia Guido Calvi, responsabile progetti di Fondazione Avsi, l’ong è presente nel Paese dal 2007. Il 28 marzo il Sud-est asiatico è stato colpito da un terremoto di magnitudo 7.7. L’epicentro del sisma è stato registrato a 16 chilometri a nord-ovest della città di Sagaing, in Myanmar.
Quali sono le necessità più urgenti che avete riscontrato sul campo e come avete risposto a queste fino ad ora?
Da subito la nostra azione si è concentrata nell’area della township di Nyaungshwe, che è una delle zone più colpite nello stato dello Shan meridionale, sul lago Inle, quindi con villaggi che sono costituiti da palafitte. In quest’area il livello di distruzione è molto elevato: in diversi villaggi più del 70% degli edifici sono stati totalmente distrutti e il 30% invece parzialmente. Le prime necessità che abbiamo riscontrato da subito in quest’area riguardavano la questione degli alloggi e dell’acqua – quest’ultima per la sua mancanza a causa della distruzione di infrastrutture, ma anche per l’elevato rischio epidemiologico dovuto alla contaminazione dell’acqua – in aggiunta al bisogno di cibo e di beni di prima necessità. Abbiamo per il momento targhettizzato circa 2.500 famiglie e fatto un assessment di coordinamento anche con Ocha, che è l’agenzia delle Nazioni Unite che si occupa del coordinamento umanitario. Su tutti i venti villaggi della township di Nyaungshwe, in cui vivono più di 19mula persone, per il momento la nostra risposta si è concentrata sulle famiglie più vulnerabili. Nel tempo però la nostra azione dovrebbe allargarsi e riuscire a raggiungere anche altre famiglie con interventi multisettoriali di diverso tipo, legati alla questione degli alloggi, con distribuzioni di materiali di prima ricostruzione o per fornire riparo, distribuzione di cibo e soldi per acquistare beni di prima necessità e distribuzione di acqua potabile.
In che modo il conflitto in corso nel Paese sta influenzando, se lo sta facendo, la risposta umanitaria?
I primi giorni dopo il terremoto la situazione è stata molto critica perché i combattimenti sono continuati e ci sono stati anche dei bombardamenti vicino ad aree dove noi lavoriamo. È evidente che questo abbia comportato tanti rischi anche per il personale umanitario e quindi un rallentamento degli aiuti. Adesso la situazione è migliorata, c’è un cessate il fuoco in corso. Resta la questione dell’accesso al Paese che non è così facile. C’è stata appunto una fase in cui il rilascio dei visti è stato bloccato, adesso sembra che la situazione sia migliorata anche da quel punto di vista, ma l’accesso al Paese rimane complicato. Per cui anche il personale umanitario tecnico ha difficoltà a raggiungere le aree più colpite. Però comunque gli aiuti stanno arrivando, soprattutto perché le organizzazioni umanitarie erano già molto presenti anche nelle aree colpite dal terremoto.
Qual è il bilancio attuale delle vittime, dei feriti, delle infrastrutture distrutte e delle persone che necessitano di assistenza umanitaria?
Per quanto riguarda i dati, si tratta ormai di stime ufficiali che parlano di più di 3.700 persone uccise e di 4.800 persone ferite. In termini di edifici ci sono più di 1.800 scuole che sono state colpite o distrutte dal terremoto e 41mila case abbattute o danneggiate in maniera importante. Più di 2 milioni di persone hanno avuto un impatto diretto dal sisma. Le zone più colpite erano aree densamente popolate, dove vivevano più di 17 milioni di persone in una situazione già resa complicata dal conflitto.

Quante persone compongono il vostro staff?
Già da prima del sisma, Avsi aveva circa trenta collaboratori in loco, principalmente nello stato dello Shan. Negli ultimi anni abbiamo inoltre lavorato con tante organizzazioni della società civile locale. In tutto il Paese abbiamo circa 12 partner locali, nella zona colpita ne abbiamo almeno 6 con cui continuiamo a lavorare anche in questo periodo. Come in altre zone del mondo colpite da crisi umanitarie, Avsi lavora poi a stretto contatto con il coordinamento umanitario assicurato dall’agenzia delle Nazioni Unite Ocha e con le strutture che ormai sono consolidate in quasi tutte le crisi mondiali. Ci sono dei coordinamenti che avvengono a livello nazionale e altri a livello locale; alcuni danno direttive generiche, altri per settori di intervento. Quindi tutte le organizzazioni che lavorano in un determinato settore, per esempio educazione o riabilitazione di case, si coordinano a livello di regione e poi anche a livello nazionale per evitare sovrapposizioni e migliorare la reportistica dei dati e l’efficienza della risposta umanitaria.
Quali sono i vostri piani a medio e lungo termine per la risposta all’emergenza e la ricostruzione nelle aree colpite?
Per quanto riguarda i piani a medio-lungo termine, Avsi sta già elaborando delle proposte per dei bandi che sono usciti, anche della cooperazione italiana, che guardano non più a una primissima risposta, ma a una fase di ricostruzione e resilienza di queste comunità. Dobbiamo sempre tenere presente però che il conflitto c’è e sfortunatamente rimarrà, quindi la possibilità di realizzare appieno delle attività di lungo periodo rimane comunque limitata e, anche se la risposta al terremoto dovesse finire e dare risultati, le esigenze emergenziali relative al conflitto resteranno. Prima del terremoto c’erano più di 3 milioni e mezzo di sfollati che continueranno ad avere le loro necessità prioritarie. Il nostro approccio, come in altre situazioni di conflitto, è quello di cercare sempre di passare da una fase di risposta emergenziale a una fase più di medio e lungo periodo, quello che viene chiamato nel mondo umanitario “nexus”, e quindi di accompagnare queste comunità ad avere, per esempio, un’autonomia dal punto di vista anche produttivo e alimentare. In un Paese come il Myanmar, questo passerà sicuramente dall’aspetto agricolo della produzione, delle cooperative, ma anche dall’accesso al lavoro alternativo all’agricoltura. Quindi attraverso la formazione professionale alternativa che possa garantire alle famiglie di avere accesso a risorse economiche per mantenersi. A questo evidentemente si accompagna tutto il lavoro che dicevamo già prima, di risposta emergenziale, per esempio assicurando delle opportunità educative a tutti i livelli di scuola: dal pre-scuola, alla scuola primaria e secondaria, alle persone che sono impattate dalla situazione di conflitto.
Qual è il vostro appello specifico alla comunità internazionale o ai donatori per sostenere i vostri sforzi in Myanmar?
L’appello che si può fare alla comunità internazionale e ai donatori è di non dimenticare il Myanmar. Appena prima del terremoto, il Myanmar era una delle crisi più dimenticate nel mondo. Dal 2021 c’è un conflitto di cui si parla poco e interessa poco. E anche da un punto di vista di finanziamenti, non è uno dei Paesi con maggiore finanziamento internazionale alla cooperazione. Il terremoto è stato sicuramente un’opportunità per richiamare l’attenzione, ora non bisogna dimenticarsi nuovamente di questo Paese.
Di quali figure specializzate ha più bisogno il Paese in questo momento?
Oggi nel mondo della cooperazione, con il tema della localization, cioè di responsabilizzare sempre di più le comunità locali, non ci sono figure tecniche nello specifico da portare dall’estero in una fase di medio-lungo periodo. Magari in una fase di primissima risposta chi sa già organizzare o ha esperienza di altre crisi di protezione civile internazionale è sicuramente necessario, ma nel medio e lungo periodo queste figure tecniche internazionali hanno forse meno rilievo. Nel caso del Myanmar, però, un settore che magari non è molto sviluppato è quello della risposta psicologica e psicosociale, dove appunto è necessaria una competenza tecnica, ma per il resto sicuramente a livello locale le competenze tecniche ci sono già.
L’ong ha aperto una raccolta fondi “Emergenza terremoto in Myanmar” per supportare la popolazione.
Vuoi accedere all'archivio di VITA?
Con un abbonamento annuale potrai sfogliare più di 50 numeri del nostro magazine, da gennaio 2020 ad oggi: ogni numero una storia sempre attuale. Oltre a tutti i contenuti extra come le newsletter tematiche, i podcast, le infografiche e gli approfondimenti.