Movimenti
Quando la protesta diventa festa. Serbia in piazza per la democrazia
Occupazione della tv nazionale e università bloccate, ma anche picnic e musica: i serbi chiedono un cambiamento con un moto pacifico. Ma l’ombra dell’influenza russa e la timidezza dell’Europa complicano lo scenario

La lotta per la democrazia e il rispetto dello stato di diritto può essere una festa. Per capirlo, basta parlare con chi sta partecipando alle proteste che da oltre quattro mesi animano la Serbia. «L’energia che si respira è incredibile», ci racconta direttamente da Belgrado Sara Stankovic, 30 anni, rientrata dall’Italia per le vacanze. «La città è viva, piena di giovani e cittadini uniti. Giorno e notte le persone arrivano, si fermano, portano coperte, cibo, musica. Quello che sta succedendo è qualcosa di molto speciale e importante: una protesta pacifica che la sera diventa quasi una festa, ma sempre con un messaggio forte e chiaro: vogliamo un Paese giusto».
Perché si protesta
Le proteste sono iniziate dopo che il primo novembre scorso 15 persone sono morte schiacciate dal crollo di una pensilina in una stazione ferroviaria di Novi Sad, la seconda città del Paese. La stazione era stata recentemente ristrutturata ma, come comunicato dal consorzio cinese che si era occupato dell’intervento, la pensilina non era stata inclusa nei lavori. Anche per questo, la tragedia ha sollevato critiche e accuse di corruzione, clientelismo e appalti truccati. Inizialmente, le proteste, animate da giovani universitari, chiedevano che i documenti relativi alla ristrutturazione venissero desecretati e le dimissioni del sindaco della città e del primo ministro Miloš Vučević.
Tuttavia, in seguito a un tentativo di repressione da parte delle autorità, le proteste si sono rapidamente estese al sistema di potere radicato in Serbia, che fa capo al presidente della Repubblica Aleksandar Vučić. A guidarle è un’alleanza (informale) tra studenti universitari e corpo docente. «Chiediamo solo che le istituzioni funzionino per il popolo e non contro di esso», dice a VITA Janja Simentić Popović, professoressa di Diritto internazionale e dell’Unione europea all’Università di Belgrado. Da novembre, le università sono bloccate: niente lezioni, niente esami. «Gli studenti sono molto determinati, ma portarle avanti non è facile, ma il governo fa molte pressioni sulle università minacciando di tagliare fondi e stipendi al personale», spiega Popović.
Oltre alle manifestazioni, partecipatissime, che si tengono ogni 15 del mese in memoria delle vittime di Novi Sad, l’evento più importante è stata l’occupazione della sede di RTS, la tv nazionale, da anni simbolo di disinformazione e manipolazione al servizio del potere. «Vučić era sempre in tv a dire falsità, ad attaccare gli studenti sostenendo che la loro non fosse una vera protesta della popolazione serba ma un qualcosa di finanziato dall’esterno. È un problema grave, perché per tutti quelli che non usano internet si tratta dell’unica fonte di informazione», sottolinea la professoressa.
Una democrazia in pericolo
Secondo Freedom House, l’ong statunitense che dal 1944 fa ricerca e sensibilizzazione su democrazia, libertà politiche e diritti umani, la Serbia è un paese «parzialmente libero» dove la democrazia parlamentare è minacciata dall’erosione dei diritti politici e delle libertà civil causate dalle pressioni che il Partito progressista serbo di Vučić esercita sui media, sull’opposizione politica e sulle organizzazioni della società civile. «Il sistema giudiziario non è indipendente, i giornalisti e le ong sono sotto attacco, sono spiati attraverso software digitali. È così da anni, ma ora finalmente la gente si è svegliata e scende in piazza per dire che non si può vivere così», dice ancora Popović.
Quale possa essere l’esito delle proteste è incerto, perché gli studenti non minacciano di mollare la presa e Vućić non sembra troppo incline al dialogo. Qualcosa, però, sembra iniziare a muoversi. «Ci sono stati senz’altro dei segnali di sgretolamento del sistema di potere di Vućić», osserva con VITA Massimo Moratti, corrispondente da Belgrado dell’Osservatorio Balcani e Caucaso. «Lo si vede anche con gli apparati di polizia: non sono tutti fedeli a lui, quindi è difficile pensare che voglia e possa procedere sulla strada della repressione».
Le prime crepe
Piuttosto, quello che sta cercando di fare il presidente della Repubblica è quello di rabbonire il popolo. «Il 12 aprile c’è stata una manifestazione al termine della quale è intervenuto. C’erano chioschi che davano da mangiare e bere gratis ai partecipanti, che erano tutti provenienti dalle classi sociali più disagiate e quindi più sensibili a queste iniziative. Sul loro volto però c’era per lo più disinteresse, tanto che molti hanno cercato di andarsene prima dell’inizio del comizio di Vućić, ma sono stati bloccati per dare una parvenza di larga adesione», racconta Moratti. In ogni caso, «erano in 45-55mila, circa sei volte in meno rispetto a quanti sono scesi in piazza il 15 marzo scorso».
Nonostante in questi momento Vućić non goda di largo consenso, chi protesta non gli chiede di farsi da parte, ma solo di rispettare la democrazia e lo stato di diritto. «Una delle cose che vengono più ripetute è che non spetta a lui la competenza di dire sì o no a molte delle richieste che vengono fatte. Il suo rullo, infatti, è simile a quello che per noi ha Sergio Mattarella, quindi una funzione più cerimoniale, ma in realtà lui interviene su ogni cosa».
Il popolo va Bruxelles, il presidente a Mosca
In tutto questo, sullo sfondo c’è l’Unione europea. O meglio, c’è la sua assenza. «Il processo di adesione della Serbia all’Ue è in corso da quasi vent’anni e quindi le persone non ci credono più. Per questo non si vedono bandiere dell’Ue, anche se in realtà protestano per tutto quello che l’Europa rappresenta», spiega Moratti. Le pressioni di Bruxelles su Vućić, infatti, sono timide: a pesare sono soprattutto accordi di natura economica e strategia, in particolare quelli che riguardano le riserve di litio di cui la Serbia è ricca. Il “timore”, in questo senso, è che usare il pugno duro contro Vućić possa allontanarlo e spingerlo verso altri attori internazionali, come la Russia. Non a caso, il 9 maggio il presidente serbo sarà a Mosca per la celebrazione del Giorno della vittoria dell’Armata rossa contro la Germania nazista. Lo stesso giorno, alcuni studenti partiti oggi in una simbolica maratona, consegneranno al Parlamento europeo una lettera di richiesta di supporto più deciso.
Nella foto di apertura, di Darko Vojinovic per AP Photo/LaPresse, le proteste di fine marzo scorso a Belgrado.
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