Mondo
No, la politica è sempre una buona medicina
Intervista a Filippo Andreatta.
Filippo Andreatta, tra i più brillanti esperti italiani di politica internazionale, si dice ottimista. La sfida elettorale secondo lui è un beneficio per definizione. Andreatta non si nasconde nessun rischio, ma è convinto che la politica è il miglior antidoto alla guerra. Per questo pensa che il rinvio sia una sciagura. O una vittoria della strategia del caos, sulla quale ha scritto pochi mesi fa un bellissimo libro, Alla ricerca dell?ordine mondiale. L?Occidente di fronte alla guerra (Il Mulino)
Vita: Un rinvio non potrebbe dare più credibilità all?appuntamento elettorale?
Filippo Andreatta: Non vedo i benefici di un rinvio. Un po? più di tempo in più potrebbe dare la possibilità di una migliore repressione della violenza e rassicurare i sunniti inducendoli a una maggiore partecipazione. Ma un rinvio sarebbe un segnale di debolezza di fronte alla violenza, e radicalizzerebbe i sunniti dimostrando loro che le frange oltranziste hanno ragione e che l?azione militare porta i frutti. Seconda ragione, il rinvio metterebbe a repentaglio la credibilità della comunità internazionale che ha puntato tutto su questa data. Senza dimenticare il particolare che oggi non si vede quale soggetto possa decidere un eventuale spostamento. Non certo i governi della coalizione, né quello iracheno che non ha avuto una legittimazione democratica. La terza ragione è di natura ideologica: una legittimazione elettorale anche imperfetta è un beneficio. Credo fermamente nel potere curativo della democrazia.
Vita: Ma il ?dogma? del 30 gennaio non serve anche da alibi alle potenze della coalizione per affrettare il disimpegno dall?Iraq?
Andreatta: Questa tentazione c?è, ma sarebbe un errore gravissimo. Qui siamo di fronte a una guerra civile, con 1.200 morti militari americani e decine, decine di migliaia tra gli iracheni. Non siamo di fronte alla resistenza di qualche irriducibile e folle nostalgico: questa è anarchia diffusa. I governi della coalizione hanno contribuito con la guerra e con gli errori della fase post bellica a creare una situazione di estrema incertezza. E ora non possono sfilarsi. Non possono cercare una sorta di buco nero com?è accaduto in Afghanistan. Tuttavia è vero che i governi della coalizione hanno anche interesse a leccarsi le ferite, a ridurre le perdite e quindi a intravedere un ritiro. Oggi il compito è quello di impedire che l?Iraq venga preso da una spirale anarchica. Saranno necessari anni di aiuto al processo di democratizzazione irachena. Per cui davanti al voto non dobbiamo confondere i due piani: quello che è utile per l?Iraq e quello che è utile per i governi che hanno partecipato alla guerra che devono fare i conti con il loro elettorato. Dal punto di vista degli iracheni un?elezione anche parziale è un fatto utile. Dal punto di vista dei governi occidentali non può diventare un pretesto per ritirarsi dopo aver combinato un grosso pasticcio in una delle zone più calde del mondo.
Vita: Del resto anche il Bush di questo secondo mandato sembra diverso dal primo. Una svolta che la sorprende?
Andreatta: No, era una svolta molto prevedibile. Il tratto più rivoluzionario e più pericoloso del primo Bush ha subito una tale battuta d?arresto da rendere impensabile una sua prosecuzione. Basti una cifra: 1.200 morti e più di 9mila feriti. In rapporto al numero di soldati messi in campo ci stiamo avvicinando a rapporti comparabili alle guerre in Vietnam e in Corea. Non è stata una passeggiata. Se ne rendono conto tutti. Questo sarà un mandato più moderato per forza di cose. Quello che resta da vedere è se l?unilateralismo militante lascerà il posto a un multilateralismo collaborativo o viceversa a un isolazionismo unilaterale. La cartina al tornasole si giocherà proprio in Medio Oriente, dove il ruolo degli Usa è sempre stato fondamentale, nel riavvicinamento di Camp David e nel processo di pace di Oslo. Nella prima amministrazione Bush questo ruolo è venuto meno, e le conseguenze le abbiamo viste tutti. Comunque si può dire che la determinazione fanatica che ha originato il caso iracheno mi sembra appartenga al passato.
Vita: Come si immagina l?Iraq del primo febbraio?
Andreatta: Sarà poco diverso da quello del giorno prima. Il processo verso la democrazia durerà anni. Quel giorno si farà un passo di un cammino lunghissimo.
Vita: E una prevedibile vittoria degli sciiti non surriscalderà ulteriormente le minoranze sunnite?
Andreatta: Sono riluttante a identificare strettamente con un assoluto grado di certezza i comportamenti politici rispetto ai comportamenti culturali. Per queste elezioni si sono formati dei partiti che hanno certamente delle basi elettorali culturali e anche religiose, ma le loro logiche rispondono alla politica. Il solo fatto che gli sciiti non siano più un?entità astratta definita esclusivamente in termini religiosi, che debbano confrontarsi con la politica, con le dinamiche originate dal fatto che non c?è un unico partito sciita, significa che i meccanismi della democrazia sono in grado di abbattere tante barriere identitarie tra una cultura e l?altra. Sono quasi più preoccupato che le elezioni non ci siano e che quindi con la forza delle armi la maggioranza tenti di prendere una rivalsa sulle frustrazioni di centinaia di anni di sudditanza.
Vita: E il rischio di una penetrazione iraniana?
Andreatta: Gli sciiti iracheni hanno sempre dimostrato una certa indipendenza, perché avevano una buona ragione: quella di guadagnare potere in Iraq. Se non avessero avuto prospettive politiche sarebbe stato più facile che accettassero il ruolo di burattini di una potenza estrema. Comunque questi sono rischi futuribili, mentre il rischio vero è quello che riguarda il perpetuarsi del presente. Ci vuole più coraggio rispetto alle valutazioni dei rischi dell?area. La vera tragedia sarebbe la normalizzazione della violenza. Una normalizzazione che sta avvenendo nella completa distrazione dei media. Guardiamo la realtà in faccia e smettiamola di giocare a fare i geopolitici, a fare i piccoli Kissinger. Prima della democrazia compiuta c?è un lungo processo che si chiama liberalizzazione: nell?ultimo anno e mezzo in Iraq sono stati fatti molti passi in questa direzione. C?è una stampa libera, una volontà di organizzare partiti. Sono segni incoraggianti. Lavoriamo perché siano sempre di più.
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