La forza delle relazioni
L’infermiere e Francesco, quando la cura cambia l’ultimo miglio della vita
Poco prima di entrare in coma, il Pontefice ha salutato con la mano il suo infermiere personale. Ma come ci si può preparare a stare accanto ad una persona negli ultimi attimi della vita? Come percorrere l'ultimo tratto di un cammino in cui bisogna necessariamente attraversare fragilità e paure? In dialogo con don Tullio Proserpio, cappellano all'Istituto Nazionale dei Tumori

Nei suoi ultimi momenti di coscienza, Papa Francesco ha ringraziato con la mano Massimiliano Strappetti, l’infermiere che gli è stato accanto in questi anni e in particolare in queste ultime settimane di malattia. Era lì con lui anche lunedì mattina all’alba, quando poco dopo il risveglio Bergoglio ha avuto le prime avvisaglie del malore che ne avrebbe causato la morte. Il giorno prima, nella domenica di Pasqua, proprio al suo infermiere Francesco aveva detto “grazie” per quell’ultimo giro in piazza, fra la gente. «Credi che possa farlo?», gli aveva chiesto: e lui lo aveva rassicurato.
Quell’ultimo cenno con la mano, rivolto a chi lo ha accompagnato, è un gesto semplice ma importante, che mette in luce quanto sia fondamentale la figura – che sia di un familiare o di un professionista – che accompagna una persona nell’ultimo miglio della sua vita.
È capitato o capiterà a tutti di essere vicino a qualcuno che sta per morire. Come ci si può preparare? Che attenzioni occorre avere? «Accettando le paure e camminando insieme all’altro, senza imporre nulla», risponde don Tullio Proserpio, cappellano dell’Istituto Nazionale dei tumori di Milano: un uomo abituato ad abitare il confine.
Come ci si può preparare al compito di “stare” e di accompagnare una persona giunta alla fine della sua vita?
Riconoscendo quello che siamo realmente. Di solito è difficile farlo: siamo impregnati di una cultura in cui dobbiamo essere sempre all’altezza, sempre capaci. Confrontarci con gli anni che passano e la vita che avanza, con una malattia che arriva, ci aiuta a riconoscere i limiti. Non solo dal punto di vista concettuale, ma come esperienza personale. Quando nasce questa consapevolezza profonda del proprio essere limitato, debole e fragile, ecco che c’è la condizione prima per poter accompagnare un altro: si impara a essere meno presuntuosi ed arroganti rispetto alla condizione dell’altro e alla situazione che già sta vivendo. Un altro elemento importante è la possibilità di avere un confronto con una terza persona.
Che può aiutarci in che modo?
Può aiutarmi a leggere e rileggere quello che sto vivendo. Non per dirmi dove ho sbagliato, ma per darmi una mano a riflettere maggiormente sul perché ho detto o fatto una cosa piuttosto che un’altra. Questo, ancora una volta, aiuta a conoscermi, ma anche a mettermi in cammino con l’altro.
Cosa intende per “mettersi in cammino con l’altro”?
Si cammina con l’altra persona: io cammino, ma non so dove arriverò. Se in me – e parlo come prete – c’è un desiderio particolare, non è detto che quel desiderio sia anche il desiderio dell’altra persona. Si inizia un percorso, si cammina e si vede dove porta questa strada. Ci deve essere una grande libertà interiore, non si può imporre nulla.
Stare accanto a qualcuno nei suoi ultimi momenti pone certamente delle sfide. Ma può essere anche reciprocamente arricchente?
Quello che guadagniamo talvolta lo diamo per scontato, perché non ha valore dal punto di vista economico. Quando la persona si apre a me che l’accompagno, mi regala la propria umanità: non è così scontato che un altro mi racconti il suo vissuto, le sue paure, le sue angosce e le sue ansie. Credo sia questa la ricchezza più grande. È importante sentirsi ricordare quanto è bello svegliarsi al mattino, vedere il sole, bere un bicchiere d’acqua. Avere qualcuno che mi vuole bene. Non siamo più abituati a vedere queste cose come elementi preziosi, perché siamo troppo sbilanciati e proiettati su una dimensione prettamente economica e perdiamo di vista i risvolti umani.
Come possiamo prepararci a gestire le paure che l’altro ci confida alla fine della propria vita?
Riconoscendo che tutti abbiamo paura. E poi, paura di che cosa? Anch’io quando incontro una persona gravemente malata, immediatamente penso alla paura di morire. Può essere che sia così, ma in verità io non lo so e non lo posso dare per scontato. Quindi bisognerebbe cercare in maniera accorta, delicata, di porre la domanda. Poi, se la paura c’è, non possiamo toglierla. Ma mi piace pensare che anche Gesù – che è Dio fatto uomo – non ci toglie la paura, ci aiuta ad attraversarla. E allora ricordiamoci che tutti siamo pieni di paure, che talvolta neghiamo: paura di invecchiare, di ammalarci, di perdere la bellezza e la gioventù, paura di morire, di essere abbandonati, di essere lasciati soli. Non pensarci, fare finta di niente, non serve. Quello che serve contro la paura è avere buone relazioni.
Cosa significa?
Significa condividere un percorso, senza imporre nulla. La cattiva relazione, invece, mortifica la speranza. Io non posso credere in una vita dopo la morte se non colgo già, qui e ora, dei segni che rendono questa prospettiva credibile, che rendono possibile credere che ci sia un Dio che mi vuole bene, come un padre misericordioso. La fede è un dono e non può essere imposta: ciascuno ha la libertà di leggere i segni in modo diverso, non c’è qualcuno che ha ragione e qualcuno che ha torto.
In foto, Massimiliano Strappetti sullo sfondo mentre osserva Papa Francesco entrare nell’Aula Paolo VI appoggiandosi al bastone, nel l’agosto 2022. AP Photo/Gregorio Borgia
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