L'arte della cura

Non basta condividere gli spazi, occorre condividere la vita

Su VITA magazine otto artisti e intellettuali mettono in scena la cura. Fra loro Roy Chen, scrittore e drammaturgo israeliano, autore di "Chi come me". La pièce teatrale parla del disagio psichiatrico giovanile, ma anche di genitori troppo impegnati ad occuparsi di sé per accorgersi dei propri figli. L'intervista

di Sara De Carli

Quando gli spettatori vengono interpellati, le prime mani si alzano timide. Chi come me? chiede l’adolescente malato, abusato, schizofrenico, autistico. Poi è un crescendo. Il tono si alza, la voce incalza, le domande si fanno più potenti e più intime e più sono intime più le mani rispondono. Quella vicinanza a cui l’allestimento scenico ha già costretto, con i letti del reparto di igiene mentale per adolescenti che non non resta confinato sul palco ma ci raggiunge in platea, diventa contaminazione. Le fragilità e i limiti dei ragazzi sono anche le fragilità e i limiti dei loro genitori, questo è esplicito. Ma altrettanto evidentemente le fragilità e i limiti rappresentati in scena sono i nostri, degli spettatori che nella scena sono coinvolti. Chi come me è una pièce delicata e poetica sul disagio psichiatrico giovanile. Testo dell’israeliano Roy Chen, regia di Andrée Ruth Shammah, lo spettacolo è stata la sorprendente rivelazione della scorsa stagione del Teatro Franco Parenti (tornerà anche nel 2025). «Racconta la storia di cinque adolescenti ricoverati nel reparto chiuso di un centro di salute mentale di Tel Aviv, avvenuto nel 2019», dice Chen. «È stato scritto basandosi sulla mia esperienza, lavorando in un ospedale psichiatrico. Ho sempre evitato di dire che “l’arte guarisce”, mi sembrava arrogante. Ma lì, in quell’ospedale, ho visto la forza terapeutica del teatro». Ciò che invece manca – e che nella pièce viene potentemente denunciato nella sua assenza – è la cura da parte dei genitori, troppo impegnati ad occuparsi di sé per accorgersi dei propri figli. Genitori con storie, esperienze, profili diversi (straordinaria la scelta di affidare alla medesima coppia di attori tutte le parti dei genitori), ma accomunati dal non vedere. 

Roy Chen, photo P. Adamov

Nel nuovo numero di VITA, La solitudine dei caregiver, otto artisti e intellettuali narrano la bellezza del gesto di cura. Se hai un abbonamento, leggi subito qui oppure abbonati per scoprire il magazine e tutti gli altri contenuti dedicati.

Ragionare di cura vuol dire anche ragionare attorno alla sua mancanza. Però in tanti ormai denunciano come gli adolescenti di oggi siano così caricati della responsabilità della felicità dei propri genitori e della loro fragilità che nemmeno più palesano il loro star male perché sanno che questo sarebbe un carico insopportabile per i genitori…

Ho scritto la parte dei genitori diversi per gli stessi due attori virtuosi. Si può dire che è perché vengono visti attraverso gli occhi dei ragazzi. Molte delle famiglie che ho incontrato durante il mio lavoro in ospedale erano disfunzionali. Оvviamente, quando la famiglia offre il suo sostegno, il processo di guarigione cambia radicalmente. Il teatro ha bisogno di conflitti, quindi ho scelto una situazione di tensione familiare: tuttavia, non li giudico in modo così severo come sembra. I genitori di Barak decidono di non portarlo a casa nel weekend perché hanno paura che rovini il compleanno del fratello: sembra crudele, ma ogni genitore con più figli deve fare scelte di questo tipo ogni giorno. Il padre di Esther non sa come aiutare la figlia schizofrenica post-traumatica, ma la ama molto. La madre di Emmanuel ha a sua volta bisogno di ricevere cure. La madre di Tamara inizia il suo viaggio verso la comprensione di cosa sia la disforia di genere ed è una cosa per cui ci vuole tempo. Insomma, è più facile guardare la vita di lato che esserci dentro.

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