World Press Photo

Si chiama Mahmoud, ma ha milioni di altri nomi dimenticati

Il bambino ritratto nell'immagine che ha vinto il World Press Photo si chiama Mahmoud Ajjour, ha 9 anni, è un palestinese di Gaza. Uno scatto che oggi rimanda a un crocifisso senza braccia e senza gambe, in un piccola chiesa d'Albania. E ci dice che non esistono buone cause, né motivazioni sensate, che possano giustificare il prezzo pagato negli anni '20 di questo primo secolo del millennio da troppi ragazzini innocenti. Che si chiamino Mahmud o con un milione di altri nomi dimenticati

di Maria Laura Conte

Premessa: ogni parola scelta, nel paragone con questa foto, suona impotente, schiacciata dalla forza attrattiva ed espressiva dello scatto di Samar Amu Elouf, fotoreporter premiata al World Press Photo 2025 per la miglior foto dell’anno.

Lui, il protagonista, è Mahmoud Ajjour, 9 anni, palestinese di Gaza. L’antefatto è questo: un giorno nero del 2024, nel cercare di avvisare i suoi, nel gridargli di mettersi in salvo durante un bombardamento, resta colpito e perde entrambe le braccia. Un braccio è sbriciolato dall’esplosione, l’altro gli viene amputato perché incurabile.

La fotoreporter lo ritrae com’è oggi, un anno dopo: in ombra resta parte del capo, delle spalle, mentre la luce sfiora gli occhi socchiusi che lasciano scorgere non rabbia, non tristezza, bensì una timida fierezza. Un’espressione adulta su un corpo acerbo di bambino. Il chiaroscuro che profila le diverse parti di questo mezzobusto ci restituisce la tensione che lo percorre, la linfa vitale che lo tiene in piedi, e lo spinge avanti ancora, nonostante tutto: il suo sguardo, ferito, alto (alla latina, cioè profondo), non pavido, punta verso un altrove, un luogo e un tempo che noi – che lo guardiamo – vogliamo, speriamo, pretendiamo che possa essere giusto, sereno e protettivo con lui, già passato attraverso prove inimmaginabili.

O forse l’efficacia della fotografia sta proprio in questo: ci mostra, trattenendoci, ciò che non si vede. Per sottrazione costringe a pensare al prezzo già pagato da Mahmoud alla guerra, alla storia di questi giorni che per noi, accomodati qui, sono solo notizie che scorrono a nastro continuo. 

Questo bambino, come tutti i bambini del mondo, dovrebbe avere le braccia al loro posto, mobili, dinamiche, perfino capricciose, per disegnare la sua famiglia come chiedono tutte le maestre del mondo o per scrivere che cosa vuol fare da grande; per mangiare la sua torta di compleanno o fare le costruzioni, per andare in bicicletta o arrampicarsi sull’albero di pesche, per lanciare un pallone o far volare un aquilone, per abbracciare la sua mamma o pettinarsi il ciuffo ribelle. 

Questa mancanza richiama dolorosamente mille dettagli che compongono il quotidiano di un bambino e ne costituiscono la fibra preziosa, unica e insostituibile.

Lui è palestinese, ma il suo sguardo e la sua tragedia sono universali: presta il suo volto, dai tratti così singolari, a tutti i bambini la cui infanzia è conculcata dalla guerra, i piccoli figli del Sudan, del Congo, dell’Ucraina… e di decine di altri luoghi della terra dove si impone pervasiva la cecità della violenza. 

Il singolare, singolarissimo volto di Mahmud straccia di schianto ogni retorica geopolitica, ogni ragionamento strategico, fardelli del mondo adulto che dimentica l’essenziale: c’è un bene, un valore ultimo, che va difeso sempre. Si chiama Mahmoud in questa istantanea, ma ha milioni di altri nomi dimenticati

Maria Laura Conte

Il singolare, singolarissimo volto di Mahmud straccia di schianto ogni retorica geopolitica, ogni ragionamento strategico, fardelli del mondo adulto che dimentica l’essenziale: c’è un bene, un valore ultimo, che va difeso sempre. Si chiama Mahmoud in questa istantanea, ma ha milioni di altri nomi dimenticati. 

Non esistono buone cause, né motivazioni sensate, che possano giustificare il prezzo pagato negli anni ’20 di questo primo secolo del millennio da un ragazzino innocente. Innocente.

Infine questo ritratto rispolvera un ricordo: in una chiesa sperduta dell’Albania più profonda e laica, è conservato con grande cura un antico crocifisso di legno, o meglio quel che ne resta: è un busto di un Cristo, inchiodato alla croce, senza braccia e senza gambe, incenerite da un incendio appiccato alla chiesa negli anni delle persecuzioni religiose. Non è un’opera d’arte famosa, è in un posto dimenticato da Dio, quasi come Gaza, eppure è custodito come promemoria di una certezza: la violenza può portarti via le gambe, può tagliarti le braccia, ma non può ridurre mai la tua dignità infinita, né cancellare la possibilità di rinascere. 

In apertura: World Press Photo of the Year 2025 | Samar Abu Elouf – Mahmoud Ajjour, Aged Nine | World Press Photo – www.worldpressphoto.org

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