Enrico Matheis

Combatto il razzismo ridendoci sopra

di Ilaria Dioguardi

Ha 32 anni, vive a Prato, è originario della Nigeria. Enrico Matheis è un cantante, il nome d’arte è Buio. I suoi video, in cui ironizza intorno al razzismo, fanno ridere e riflettere al tempo stesso. «Il fatto di disarmare le persone mi sembra sia l'arma più efficace ed intelligente di tutte»

Buio è il suo nome d’arte, da cantante, sui social è enricosadici. Enrico Matheis è nato in Italia 32 anni fa, vive a Prato e ha origini nigeriane. Un giorno, per scherzo, prova a fare un video da postare sui social, in cui parla di razzismo in modo ironico ed intelligente. E funziona. Così continua a farne, con successo. Ha la cittadinanza italiana solo da due anni e dice, con un simpatico accento toscano: «Io, italiano di seconda generazione, oggi nel nostro Paese vivo peggio di ieri».

Nei suoi video scherza sul razzismo. Usa l’arma dell’intelligenza e dell’ironia, invece di farne un dramma. Perché?

Essendo un cantante, ho sempre fatto anche altre cose sui social, ironizzando sul razzismo. Il tentativo era quello di provare a vedere se l’arma dell’ironia poteva funzionare. Pubblicai un video, per scherzo, ero un po’ sulla difensiva. Mi rendevo conto che le persone non riuscivano a sposare l’idea, ad avvicinarsi a un confronto.

Perché dice che era sulla difensiva?

Perché partivo prevenuto: «Io subisco il razzismo, faccio il video ma tu non capisci nulla, di quello che provo io». Mi sono reso conto che poi in realtà, nella vita di tutti i giorni, per come ho sempre vissuto queste cose, sono sempre riuscito a disinnescare, ridendo e facendo autoironia. Ho deciso di estremizzare, così o passavo da cretino o disinnescavo la faida. Effettivamente mi rendo conto che non ho haters o persone che si mettono a cercare di guastare la situazione perché, di fatto, dico già tutto io. Il fatto di disarmare le persone mi sembra sia l’arma più efficace ed intelligente di tutte perché così rischiamo un po’ meno tutti e ci divertiamo un po’. Mi prendo in giro già da solo, le dico già tutte io le cose, gli stereotipi. Se vuoi sparare sulla Croce rossa, spara.

Questo suo modo di fare spettacolo è già un percorso professionale?

Sì, sono un cantante da due anni a livello professionale, per quanto riguarda l’ambito eventi. Ho una pagina su Instagram che si chiama Sono solo buio, che utilizzo per i contenuti musicali. Faccio il cantante principale delle band, sia in Italia che in Europa. Ho fatto di recente una collaborazione con Collettivo Funk, un gruppo italiano con cui ho fatto un brano in inglese. Il mio genere è soprattutto pop urban. Ho fatto il barista e il cameriere per 17 anni. Nel frattempo me ne andavo in giro a cantare e suonare con dei gruppi di amici, ho partecipato ad X Factor nel 2016. Poi ho fatto un paio di brani con Cristiano Malgioglio e ho fatto un po’ di tv per un paio d’anni.

Come si sente in Italia, oggi, lei che è di seconda generazione?

Io ho sempre ironizzato intorno a questi temi. Scherzavo, ridevo e facevo di quest’ironia quasi un’arma per stare insieme alle persone, per sentirmi accettato. Però non me ne rendevo conto. Poi c’è stato un tracollo, dopo il Covid. Lavoravo nella ristorazione e facevo musica, nel momento in cui c’è stata la pandemia mi sono sentito inutile, ho deciso che volevo cambiare vita. Mi sono reso conto di qual era la situazione che stavo vivendo, di quello che avevo vissuto fino a quel momento.

Ho preso coscienza di tutto il razzismo subito, di tutta la discriminazione gratuita subita. In realtà non l’avevo accettata, ma l’avevo repressa. Visto il momento attuale, io che ho preso la cittadinanza solo due anni fa (questo Paese tende a volersi “avvitare” sempre sulle stesse cose), ho pensato che avrei voluto dare il mio contributo. Io sono un po’ spaventato dalla situazione che vedo oggi intorno a me.

Perché spaventato?

Quando avevo 15-16 anni non c’era tutta la legittimazione da parte delle persone a comportarsi in un certo modo, a discriminare le persone gratuitamente in pubblico, sentendosi forti di poterlo fare. Era una cosa che io non vivevo così, era molto più scherzoso e forse anche più ignorante come periodo. Ora vivo in mezzo a persone che sono stanche di avere intorno persone originarie di altri Paesi, e lo dicono al bar, al supermercato e non si nascondono neanche più. Questo mi ha un po’ “acceso”.

Lei è spaventato da quello che vede intorno a lei nella vita quotidiana, o si riferisce anche alla politica?

Purtroppo mi riferisco alla politica perché la vita quotidiana ha una diretta conseguenza. Tutti noi, prendiamo spesso come esempio qualcosa di non propriamente giusto, però mi rendo conto che se le forze politiche, le istituzioni che ci sono in questo momento dicono cose di un determinato livello e peso, con tanta leggerezza, aiutano le persone a sentirsi legittimate nel poter dire determinate cose, nel potersi comportare e lamentare della loro situazione, accusando qualcun altro, ma perché gli è stato insegnato che il colpevole era un altro. Questo un po’ si mi spaventa perché prima avevo più confronto con tante persone, oggi faccio fatica.

Questo suo esporsi è anche un modo per condividere? Non riesce a farlo nella vita quotidiana e lo fa sui social?

Nella vita quotidiana non lo faccio spesso perché poi mi trovo nella situazione di dover spiegare a una persona che ci sono cose che non si dovrebbero dire. Però non posso passare le mie giornate a far capire che abbiamo una sensibilità, come tutti. Sui social mi rendo conto che arriva di più il messaggio: le persone, in media, rispondono che questo aiuta, sono contente che io comunichi in questo modo. Se per strada una persona se ne esce in modo sbagliato, nel momento in cui glielo fai notare in mezzo ad altre persone, è difficile che ritratti, che riveda la propria posizione, quindi diventa un conflitto di uno contro l’altro.

Un esempio di qualcuno che se ne è uscito male?

Gli episodi più tristi sono quelli di persone che mi dicono: «Tu sei bravo, però ci sono quelli che vengono qui in Italia e che però…».  Per me già solo questa frase è agghiacciante. Non si rendono conto della sofferenza. Io ho avuto un fratello, che purtroppo non c’è più. Era in una zona particolare della Nigeria, non doveva partire, ma è partito lo stesso ed è passato dalla Libia per arrivare in Italia. Non c’è più perché dopo questo viaggio non si è trattato bene, non ha retto emotivamente, moralmente. Io vorrei spiegare alle persone che non è sempre una “passeggiata di salute”.

La cosa peggiore, per esempio, quando vado in giro in una città o in un paesino, mi succede quando cammino sul marciapiede e la signora che c’è davanti, quando le passo accanto, mi vede con la coda dell’occhio e tira a sé la borsa. O quando vado alle Poste, saluto e allo sportello mi guardano come un cliente di serie B, poi sentono che parlo italiano, si prostrano perché capiscono di aver fatto una figuraccia.

Come si sente oggi nel nostro Paese, lei che è italiano di seconda generazione?

Oggi mi sento peggio di ieri. Forse perché sono cresciuto e ho una consapevolezza diversa, sono meno leggero sotto un certo punto di vista. Però mi chiedo anche perché dovrei essere leggero. Alla fine si parla della vita delle persone, non credo che a qualcuno piacerebbe sentirsi discriminato a prescindere.

Mi ha colpito, in particolare, un video in cui parla del detersivo Omino bianco, ironizzando sul fatto che questa marca ha il marchio di un omino nero con una maglia bianca, ma si chiama Omino bianco…

Omino bianco, Calimero… Sono cose che io mi porto dietro sin da piccino. Omino bianco è un marchio che da 71 anni ha un uomo di colore con una maglietta bianca. Poi c’è la versione nera di Cicciobello, che era Angelo negro, e ho fatto un video su questa pubblicità del 1978 sui bambolotti, rispettivamente con la pelle bianca e con la pelle nera.

Foto dell’intervistato

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