Renza Marinone, classe 1951, è una donna elegante e piena di passione. Gentile, ma dal piglio deciso, insomma una che ha davvero navigato dentro le scuole e nelle sue ricerche e nei suoi metodi è rigorosa e centrata. Pedagogista clinica, vive e opera nel cuore del Piemonte, a Casale Monferrato. Da sempre si occupa di educazione: attraverso i tanti anni di insegnamento e poi nel suo studio, diventato da tempo un’associazione. Ha fondato “I care family”, un ponte di accoglienza tra scuola e famiglia, si occupa di formazione degli insegnanti e da tempo organizza “la scuola dei genitori” con eventi, convegni e dialoghi a cui partecipano centinaia di adulti. Centinaia di adulti in una cittadina famosa più per il vino e l’enogastronomia che per l’istanza educativa. La sete di conoscenza, quando di parla di adolescenza, è infinita. Negli ultimi anni è una emergenza di cui ci si lamenta sempre più spesso: entriamo “in classe”, sediamoci in silenzio per ascoltare chi, sul pezzo da tempo, ha osservato molto e ha qualcosa da indicare.
Da dove nasce la sua passione per l’educazione?
La mia passione nasce da quando ero molto giovane io pensavo di occuparmi degli altri, pensavo di lavorare con i bambini e successivamente, negli anni invece ho cominciato ad occuparmi di adolescenti e poi di adulti. Perché tutto questo? Soprattutto negli ultimi anni ho capito che è necessario, basta guardarci intorno: c’è bisogno di aiuto, c’è bisogno di accoglienza nei confronti degli altri e c’è bisogno di insegnare agli altri, come bisogna fare.
Tutto è cominciato con i suoi studi accademici?
Si certo: una laurea in pedagogia ad indirizzo psicologico, poi ho girato il mondo. Poi rientrata, a Milano mi sono occupata di scrittura, perché lo scrivere è stato sempre una delle mie più grandi passioni. Non ero più giovanissima e capivo che mi mancava un pezzo importante di studio e mi sono masterizzata per tre anni. Oggi sono un pedagogista clinico e ho aperto uno studio personale che si è poi trasformato in una associazione in favore degli altri e delle fasce deboli. Adesso il lavoro che faccio non è solo occuparmi dei pazienti, o una osservazione di ricerca, ma è un lavoro che faccio a favore degli altri e in modo particolare degli adolescenti.
Che docente è stata?
Sono sempre stata appassionata del tema educativo e ho proseguito in questo senso. Ho insegnato quaranta anni italiano e storia come docente di ruolo, ma avendo conseguito tutte le abilitazioni, insegnavo anche psicologia, pedagogia, scienze dell’educazione. E mi è piaciuto molto perché il contatto con i ragazzi è stato bellissimo. Io ero l’insegnante severa, ma in realtà tanto tanto aperta a questi ragazzi e loro, ancora oggi mi ricordano e li ritrovo nei corsi di formazione come adulti che mi riconoscono. Questa cosa mi riempie il cuore perché vuol dire che, al di là dell’insegnamento formale, ho lasciato qualcosa e questo è quello che volevo fare nella mia vita.
Come è cambiato il rapporto con gli studenti nel corso della sua vita professionale?
I ragazzi anni fa erano molto diversi rispetto a questi di oggi. Erano ragazzi che avevano un modello educativo, diciamo così, più chiaro, positivo. L’insegnante per loro era un punto di riferimento sia positivo che negativo: l’insegnante era l’insegnante! Col tempo le cose sono cambiate, questa gioventù, è inutile che lo neghiamo, questi giovani sono andati in quella che viene chiamata “deriva educativa”, non sono io che ho inventato questa brutta espressione.
Da cosa lo vedeva?
Da cose banali, dal fatto che hanno cominciato a vestirsi anche a scuola in modo particolare, dal fatto che arrivavano a scuola già un po’ alterati al mattino, evidentemente avevano già fatto, preso respirato qualcosa… non erano più presenti, e allora bisognava catturarli. Ma per catturarli, soprattutto oggi ma anche allora, per catturarli bisognava scendere al cuore dei ragazzi. Cercare di capire quali erano i loro punti deboli, ma non per colpirli, ma trovare la chiave di accesso a loro e piano piano, diventare, non un amico ma una persona sulla quale potevi contare. E allora, studiavano! Tutto questo deriva dal rispetto: dal fatto che loro sapevano che io li rispettavo e loro rispondevano.
Oggi?
Oggi io non sono più all’interno della scuola, così vicina. Credo che sia molto difficile per questi giovani insegnanti anche perché non sono molto formati mentre i ragazzi sono sempre più organizzati, sempre più pieni di problemi e questi problemi spesso vengono repressi: l’unico sistema sembra essere la repressione. Invece, dal mio punto di vista, per avvicinarsi a loro, per far sì che poco per volta mutino i loro punti di riferimento, non ci deve essere una repressione ma ci deve essere una comprensione, un’accoglienza. Bisogna un po’ scendere nell’animo delle persone, soprattutto nei giovani.
Questi giovani, oggi…
Non è vero che i giovani sono cattivi. In un nostro convegno, don Claudio Burgio, cappellano del carcere minorile Beccaria di Milano, ci diceva «non ci sono ragazzi cattivi, ci sono ragazzi disadattati, ragazzi che hanno vissuto delle esperienze molto diseducative» e di conseguenza sono diventate la norma.
Il suo metodo di insegnamento è cambiato al cambiare delle generazioni?
Io sono sempre stata quella che sono: per me i ragazzi non sono mai stati dei numeri o dei voti. I ragazzi erano i giovani con i loro pregi e i loro difetti, ma se noi insegnanti non partivamo da quello che erano le attitudini e i punti di forza di un ragazzo, perché tutti i ragazzi hanno qualcosa di buono, ma se tu insegnante non lo vai a cercare questo “buono” e non lo potenzi, cosa pensi di fare? Puoi solo usare un metodo repressivo ma non è certamente un metodo educativo. Non darai niente di buono ai giovani e invece bisogna lasciare, possibilmente, un esempio.
Le problematiche adolescenziali sono fisiologiche nella storia di ogni generazione: lei ha visto cambiare questo che oggi si chiama disagio?
Il disagio nei ragazzi ultimamente è a un livello altissimo. Questo bisogno di mostrare che sono onnipotenti, che niente a loro fa paura, questa rabbia che hanno dentro che non è più veicolata in qualcosa di positivo. Prima c’era lo sport, oggi ci sono i “maranza”, queste unioni di ragazzi, queste bande che per la minima cosa, anche una spallata data per caso in un corridoio, una minima cosa, può diventare una miccia per botte, atti che denunciano una rabbia non veicolata e questo è molto pericoloso.
Come ha inciso l’isolamento forzato del periodo del Covid?
Ha fatto la sua parte, ha inciso molto. Durante il Covid, con la mia associazione e un importante istituto della mia città abbiamo pensato di fare un progetto che si chiamava “adolescenti e pandemia”. Abbiamo con molta attenzione, formulato un questionario e lo abbiamo somministrato a seicento alunni. Quello che è venuto fuori sono state cose ormai di pubblico dominio: la solitudine, il disagio per l’allontanamento da qualunque possibilità di fare gruppo, non solo mancavano gli amici, addirittura mancavano la scuola e gli insegnati. Questa rabbia e questo senso di solitudine non erano veicolati se non in un grandissimo stress e disagio che si è tramutato per molti, in un ritiro sociale. ci sono tanti ragazzi che non sono più rientrati all’interno della scuola: stiamo cercando, con metodi particolari, di farli rientrare, ma qualcuno non ce l’ha fatta ed è ancora chiuso nella sua cameretta, con il computer che però, in questo caso non è una dipendenza ma è l’unico modo per avere contatti con l’esterno. Tutti questi problemi nel momento in cui c’è stato il via libera, sono scoppiati piano piano in modo terribile, anche in patologie: per esempio fino a qualche anno fa non sapevamo neanche cosa fossero gli attacchi di panico, oggi sono all’ordine del giorno. Oggi nelle scuole parliamo anche di anoressia e bulimia, stiamo preparando un progetto proprio per questo: ci sono molte ragazze che hanno questo problema.
Quali altri disagi sono sfociati nel momento post-pandemico?
La confusione tra virtuale e reale: non c’è più una distinzione. Tutto ciò che è virtuale diventa reale: questo bisogno di soddisfazione immediata che viene molto dal mondo dei social. Altre patologie. Per le ragazze, la non consapevolezza del bene del proprio corpo: dover essere in un certo modo per assomigliare a qualcuno in vista e quindi poter piacere. Quando io ho avuto dei casi di autolesionismo, ho visto che lo fanno perché non sanno veicolare i pensieri negativi, i pensieri ossessivi compulsivi. Il dolore fisico che deriva dai tagli va a compensare il dolore psicologico.
Ma questa esplosione di malessere nel periodo del Covid ha fatto emergere qualcosa che c’era già o l’isolamento ne è stato la causa?
È stata la causa scatenante ma ricordiamoci sempre che i prodromi non nascono dalla sera alla mattina, ma hanno delle radici che talvolta sono lontane: una guerra non scoppia dall’oggi al domani. Idem questa insoddisfazione dei giovani e voglio dire, perché è un argomento che mi sta molto a cuore, tutto questo deriva da una deriva educativa: le prime persone a dove essere educate dovrebbero essere i genitori.
E quindi come ha visto cambiare la figura genitoriale?
Non andiamo ai miei tempi… io sono vissuta in una famiglia molto dignitosa e naturalmente non c’era motivo di discutere, non si discuteva rispetto a quella che era la linea educativa dei miei genitori. Oggi e negli ultimi anni, questi genitori sono tanto poco attenti ai bisogni interiori dei loro figli: tendono a iper-proteggere ma a volte bisogna dire dei sani “no” e aiutare i ragazzi a diventare loro adulti, in un altro modo. Ci vuole attenzione, accoglienza. Il tema del genitore che è un amicone o della mamma che va in discoteca con le figlie, no! Non perché siamo bacchettoni ma perché è necessario ridimensionare le figure genitoriali, devono essere non autoritari ma autorevoli! Autorevoli vuol dire che non puoi compensare tutto con il motorino, con l’andare contro al professore perché ha dato un quattro al figlio…
E quindi, come si fa?
Proviamo a scendere sul campo, mettiti accanto ai tuoi figli: cosa hanno? Perché? Cosa gli manca?
C’è anche molta letteratura in merito alla svalutazione della figura paterna o dell’assenza del padre…
Io direi che c’è la svalutazione di entrambi. Quella del padre non è nata ieri mattina, è una svalutazione che ha radici lontane: una volta il padre era la figura più importante, di riferimento, soprattutto per un adolescente. Oggi no, entrambi i genitori sono abbastanza distratti: o non hanno le categorie mentali per poter fermarsi e capire come diceva Albero Pellai (medico e psicoterapeuta dell’età evolutiva, ndr) in un convegno fatto a settembre: «tu genitore chiediti dove siamo arrivati, dove siamo finiti e perché? Chiediti come mai questo figlio che tu hai allevato in una certa maniera, come mai oggi si comporta in questo modo? Come mai siamo fuori da quella che è una sana normalità»? e per normalità non intendo le statuine, ma la conoscenza dei valori base. Dobbiamo capire che certe cose non vanno bene e invece c’è molta superficialità nell’affronto di queste domande, molta incapacità o non volontà di dire che posso aver sbagliato io- genitore.

Che tipo di intrusione operano i social dentro una relazione genitori-figli?
Io non mi sento di demonizzare i social: il digitale è un’arma molto importante, anzi uno strumento che ci ha messo in comunicazione con il mondo, però così come sono utilizzati e vissuti oggi sono un disastro: la vita non è più la vita reale è una vita virtuale. Quando mi capita di guardare vedo che ci sono persone che stanno sui social tutto il giorno che si alzano e scrivono “stamattina è una brutta giornata, non ho dormito bene”. Qual è la valenza di questa cosa? E i ragazzi tutto il giorno vedono video che istigano alla violenza così loro imparano che diventerai forte se sei violento. Questo bisogna farlo capire, nell’educazione occorre molto tempo.
Ma non trova però che i genitori hanno tutto contro? Se, come dice lei, oggi non hanno un bagaglio educativo adeguato a vivere serenamente la loro autorevolezza e cercano di entrare in un rapporto di amicizia come possono sconfiggere il male? Un tempo bastava spegnere la televisione, se c’era un modello fuorviante, un nemico: adesso i social sono milioni di televisioni in onda h24 che filtrano il rapporto con la realtà e come fa un genitore a difendersi?
Il genitore talvolta è il primo che non combatte ma che entra e si adagia in questa surrealtà. E allora non si tratta di combattere ma di capire insieme. Si tratta di comprendere insieme: io non demonizzo i social ma se noi non coni figli non ci parliamo, se noi non vediamo insieme, non ci soffermiamo a vedere cos questi figli guardano e che cosa suscita loro… il momento più delicato di una strutturazione di personalità è proprio l’adolescenza. Va presa per mano: è un periodo in cui il ragazzo non è né carne né pesce e deve costruirsi una sua immagine, deve capire come fare a porsi nel mondo verso gli altri, ha un grande bisogno di gratificazione ecc… ma come avviene questa? Non perché cerchi di sfidare un treno e poi i ragazzini muoiono in questi giochi, questo è un esempio estremo ma sono cose che accadono. Se non c’è un genitore che prende per mano un ragazzo, ci saranno tutti gli altri ragazzi, piazzati allo stesso modo che insieme faranno disastri.
Il centro I care family, un luogo, un progetto… di che si tratta?
I care family nasce 12 anni fa da un desiderio della sottoscritta e di alcune mie amiche, di fare qualche cosa non solo a scuola ma di strutturare, a favore delle fasce deboli. Si tratta inizialmente di un progetto di vita, volevamo metterci al servizio degli altri, ho cominciato a osservare i ragazzi, ascoltando i bisogni che venivano dall’esterno, dai genitori abbiamo cominciato a occuparmi di formazione. Oggi è un ente del Terzo settore, poco per volto, intessendo relazioni, ho capito sul campo che era assolutamente necessario affrontare il tema della formazione. Cosa vuol dire? Formazione dei giovani insegnanti per quei ragazzi che avevano problematiche importanti come autismo, disturbi oppositivi, disturbi dell’apprendimento e abbiamo organizzato negli anni, convegni molto importanti con i quali e grazie ai quali abbiamo formato tanti che hanno potuto mettere a curriculum questa loro formazione. Negli ultimi anni abbiamo seguito le necessità e adesso ci stiamo occupando di genitori e figli ed è nata la scuola per i genitori. Un progetto importante che ha visto di fianco a noi l’amministrazione che ha creduto, patrocinato e finanziato questo progetto, che ha visto esperti di primo piano sul territorio nazionale.
Ma insomma professoressa, quali sono queste risorse su cui vale la pena investire con i ragazzi? E dove abbiamo sbagliato?
Tutti hanno risorse proprie, personali, loro… non ci sono ragazzi cattivi. Un ragazzo ha bisogno di essere sostenuto in quel momento, dargli fiducia ma indicargli la strada! Ci sono ragazzi che sono stati lasciati da soli.
Chi l’ha sostenuta in queste avventure progettuali? E quale è la cosa di cui è più grata?
Sicuramente l’amministrazione locale, in particolare l’assessore Fiorenzo Pivetta che ci ha aiutato moltissimo nei precedenti incontri e per questo ultimo il vicesindaco Luca Novelli. Questo appoggio delle istituzioni dimostra quanto stiamo rispondendo sul territorio, quanto ci simo espansi, quanto stiamo lavorando al rientro a scuola di questi ragazzi…
La cosa di cui sono più grata è di essere riuscita, ogni tanto ad aiutare gli ultimi. Quando una persona torna nel tuo studio e ti dice «lei ha cambiato la mia vita” vuol dire che io sono riuscita a fare qualcosa».
E ha un rammarico?
Vorrei altri tanti anni per aiutare di più. ci vuole il tempo per coltivare un ragazzo, per fargli capire che lo ha capito, che credo in lui e che per questo lui può cambiare.
Quella nota e stracitata poesia di Emily Dickinson le si addice proprio: «Se io potrò impedire a un cuore di spezzarsi/non avrò vissuto invano/Se allevierò il dolore di una vita/o guarirò una pena/o aiuterò un pettirosso caduto/ a rientrare nel nido /non avrò vissuto invano». Grazie!
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