Mondo

In Sudan la mezza pace è un tesoro

È stato il più lungo conflitto dell’Africa post coloniale. Ha fatto oltre due milioni di morti.

di Padre Giulio Albanese

La guerra è terminata nel Sud Sudan, dopo oltre un ventennio di morte e distruzione. La firma è stata siglata domenica scorsa, in uno stadio di Nairobi, la capitale del confinante Kenya, dopo lunghissimi, intermittenti e difficili negoziati. Il 9 gennaio 2005 rimarrà dunque nella storia africana come la data di un avvenimento che dovrebbe, almeno sulla carta, favorire il processo di normalizzazione nel Corno d?Africa, una delle regioni più infuocate del continente nero. Ma il fatto che siano cessate le ostilità tra le forze governative e i ribelli dell?Esercito di liberazione popolare del Sudan (Spla), significa davvero che sia scoppiata la pace? L?interrogativo è legittimo, fondamentalmente per due motivi. Anzitutto perché, sommando nel computo degli anni di guerra anche la prima ribellione denominata Anya Nya I (1955-1972), s?è trattato complessivamente del più lungo conflitto dell?Africa post coloniale, con un bilancio, dal 1983 ad oggi, di oltre due milioni e mezzo di morti; il che significa che occorrerà vigilare sul processo d?integrazione tra le varie componenti politiche, etniche e religiose presenti sul territorio del più vasto Paese africano. Inoltre rimane aperta la questione del Darfur, esclusa dall?agenda negoziale tra Khartoum e Spla. Ma andiamo con ordine. Nel testo dell?accordo di Nairobi è previsto, tra sei anni, un referendum che dovrebbe consentire ai gruppi etnici che popolano le regioni meridionali del Sudan l?ottenimento dell?autodeterminazione. Ma fino ad allora, tutto potrebbe succedere e il rischio che l?appuntamento referendario possa rimanere lettera morta non è da escludere; non foss?altro perché esiste già un precedente, quello del Sahara Occidentale. Annesso al Marocco nel 1977, il popolo saharawi non ha mai ottenuto l?indipendenza nonostante le Nazioni Unite, nel lontano 1991, promisero, «entro 29 settimane», una consultazione popolare per sancire l?autodeterminazione della regione. In Sudan il rischio è praticamente lo stesso. Se infatti da una parte è vero che gli Stati Uniti e alcuni Paesi europei, tra cui l?Italia, hanno voluto fortemente l?accordo del 9 gennaio scorso, non va sottovalutato il ruolo politico della Cina che già da anni sta facendo affari a bizzeffe con il regime di Khartoum, grazie al business del petrolio. La China National Petroleum Corporation dopotutto è stata in questi ultimi anni il maggior investitore straniero in Sudan. È per questa ragione che il governo di Pechino, non più tardi di quattro mesi fa, ha spalleggiato il regime di Khartoum, evitando che, in sede di Consiglio di sicurezza Onu, fossero imposte sanzioni al Sudan per i crimini perpetrati nel Darfur dai feroci Janjaweed. Il veto cinese opposto al Palazzo di vetro è servito di fatto a procrastinare una crisi che, nel Sudan Occidentale, si sta trasformando, di ora in ora, in una vera e propria ecatombe. Ecco, dunque, perché è sempre più importante che la comunità internazionale non resti alla finestra a guardare, lasciando milioni di civili in Sudan, come in altri Paesi africani, abbandonati al loro destino. Anche perché i Paesi occidentali, fedeli assertori della realpolitik, hanno anche loro un debole, come i cinesi di cui sopra, per il teorema clintoniano «Trade not Aid» (cioè «Commercio non aiuti»), guardando troppo spesso agli interessi del proprio salvadanaio. Il 1° gennaio scorso, in un discorso al parlamento in occasione del 49esimo anniversario dell?indipendenza del Sudan dalla dominazione britannica, il presidente Omar Hassan Ahmed el-Beshir si è impegnato a rispettare l?intesa con il colonnello John Garang, leader dello Spla, spiegando che la via della secessione per il Sud, tra sei anni, non deve essere accettata come un fatto ineluttabile: «Noi dovremmo impegnarci, con la ricostruzione e lo sviluppo, a fare dell?unità nazionale una scelta attraente», ha detto il capo dello Stato, ostentando un evidente ottimismo. Bisognerà vedere, alla prova dei fatti, con quali mezzi riuscirà ad operare un?azione persuasiva sulle popolazioni del Sud, a lui peraltro tradizionalmente ostili, dopo lunghi anni di malvagità. È auspicabile, almeno sul piano politico, che non commetta gli errori del passato, dando invece spazio al dialogo e al confronto, in un Paese multietnico e multireligioso.


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