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Piano Mattei, scudo contro la furia di Trump verso le ong?
Anche le ong italiane stanno soffrendo per lo smantellamento di Usaid. «A fine febbraio sono arrivate come uno stillicidio le comunicazioni di chiusura definitiva dei progetti», dice Giampaolo Silvestri, segretario generale di Fondazione Avsi. «Dobbiamo aumentare le donazioni dei privati e delle grandi fondazioni. L'Italia, con il Piano Mattei integrato al Global Gateway europeo e alla cooperazione multilaterale, sta dimostrando che sceglie di procedere sulla via della collaborazione alla pari con gli altri Paesi»
di Anna Spena

Dallo scorso febbraio tutto il settore della cooperazione internazionale vive con il fiato sospeso e un’ombra sul futuro. La decisione del presidente americano Donald Trump, prima di congelare per 90 giorni i fondi per i progetti già contrattualizzati dall’Agenzia degli Stati Uniti per lo sviluppo internazionale (Usaid), per poi procedere con lo smantellamento della stessa, è un attento alla vita di milioni di persone. L’ente — fino ad oggi — ha finanziato il 40% della cooperazione internazionale mondiale, nel 2025 i fondi previsti ammontavano a 40 miliardi di dollari. Nessuna realtà ne uscirà illesa e le conseguenze drammatiche di queste scelte sono già diventate concrete. Giampaolo Silvestri è il segretario generale di Fondazione Avsi: «A fine febbraio», dice, «sono arrivate come uno stillicidio le comunicazioni di chiusura definitiva dei progetti».
Qual è stato il suo primo pensiero, il primo pensiero di Avsi, quando avete capito che il mondo della cooperazione internazionale andava incontro a uno tsunami?
In Uganda, in Somalia, nella Repubblica Democratica del Congo e ancora in Ecuador, Kenya, Brasile lavoriamo, anzi lavoravamo, su alcuni progetti con i fondi Usaid. Parliamo di oltre 15 milioni di euro. La prima cosa che mi sono e ci siamo chiesti è stata: «Come facciamo a continuare a fornire assistenza a 600mila persone?» E ancora «come facciamo a salvare in questi Paesi i 400 posti di lavoro delle nostre colleghe e dei nostri colleghi impegnati?».
Di quali progetti parliamo?
Di iniziative che vanno dal sostegno ai rifugiati venezuelani, come quelli in Ecuador e Brasile, a quelle che, come in Kenya e Uganda, sostengono gli ammalati di Aids. Persone che senza farmaci retrovirali sono destinate a morire. Ma tra questi ci sono anche progetti di sostegno agli orfani, alle famiglie, di supporto alimentare. La situazione è drammatica e confusa.
Quanto è confuso?
All’inizio erano 5.800 i progetti finanziati dalla cooperazione americana che sono stati chiusi, il 95% del totale. Ora le percentuali sono un po’ cambiate: 83% i progetti chiusi e 17% quelli salvati. Ma cosa succederà nel futuro immediato non lo sappiamo. È venuto a mancare il sostegno del più grande donatore mondiale. E questo fatto mette molto in discussione il valore e il senso della cooperazione allo sviluppo.
Esiste già un “Piano B”?
Dobbiamo aumentare le donazioni dei privati e delle grandi fondazioni. L’Italia, con il Piano Mattei integrato al Global Gateway europeo e alla cooperazione multilaterale, sta dimostrando che sceglie di procedere sulla via della collaborazione alla pari con gli altri Paesi. Nel Piano si riconosce la cooperazione allo sviluppo come strumento di promozione di stabilità economica e pace, oltre che di solidarietà. In questo senso il Piano Mattei è un bene da tutelare di questi tempi.
Perché secondo lei esiste ancora una percezione distorta della cooperazione allo sviluppo?
Bisogna intraprendere un’azione più forte di educazione, sensibilizzazione e comunicazione sul tema. Bisogna che arrivi chiaro il messaggio che i soldi spesi in cooperazione generano un impatto positivo non solo nei Paesi dove vengono fatti i progetti. Ma nel lungo periodo hanno un impatto positivo anche sulle nostre vite. Se un Paese africano cresce è un bene anche per noi: viviamo in un mondo connesso, non si può pensare di lasciare al loro destino chi oggi ha più bisogno, perché condividiamo tutti un destino comune.
Foto di apertura: una beneficiaria dei progetti di Fondazione Avsi in Uganda, uno dei Paesi più colpiti per l’organizzazione dai tagli dei fondi Usaid
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