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Eutanasia, il partito pronto a dire di s

Esistono tante realta', in Italia, a sostegno della "dolce morte". Le abbiamo incontrate scoprendo qualche novita' sul progresso della medicina e sulle terapie anti dolore

di Redazione

Sussurrata, innesca un turbine di riflessioni. Gridata, fa paura e dissemina equivoci a catena. Chi può dire cosa significa esattamente e correttamente la parola eutanasia? Chi non l’ha associata, almeno una volta, ai deliri di qualche folle dottor Morte, Jack Kevorkian su tutti? E chi non è convinto che in Italia le ragioni del sì alla “dolce morte” portino soltanto il marchio del Partito radicale? Tema pericoloso, questo, sul quale si può se non altro cercare di estirpare false convinzioni. Come quella per cui si tratterebbe solo di una battaglia per la libertà di scelta contro i dogmatismi del Vaticano.

A sostegno della “dolce morte”, o meglio, della morte dignitosa, si muovono invece realtà che non radicalizzano il conflitto con la Chiesa ma sottolineano che il problema sta a monte: aprire un dibattito che il fronte del no vorrebbe chiuso per definizione, nel nome della sacralità della vita. «Noi partiamo da una considerazione: i progressi della medicina prolungano in maniera innaturale e talvolta dolorosa il processo del morire», spiega Carlo Alberto Defanti della Consulta di Bioetica, associazione con sede a Milano tra le prime a sottoscrivere un documento di principio pro eutanasia, nel ‘93. Per loro la libertà di scelta è un aspetto che viene dopo: «La ventilazione meccanica, la nutrizione artificiale, certi farmaci sono strumenti nati per intervenire nelle fasi critiche di una malattia acuta per salvare delle vite. A poco a poco si è pensato di applicarle anche ai malati cronici, con il risultato paradossale di prolungarne la sofferenza». E per Defanti, che è primario di Neurologia al Niguarda di Milano, sono deboli le due risposte che la scienza dà al paradosso: «Una è fermare l’accanimento terapeutico: a parole siamo tutti d’accordo su questo ma nei fatti è difficile segnare il confine con una normale terapia. Altra risposta è la cura palliativa, di cui io sono assoluto promotore: ma l’esperienza mi dice che resta un piccolo nucleo di malati ai quali non si riesce a togliere il dolore. Ecco, è per loro che dobbiamo almeno riaprire il dibattito». Il presidente della Società italiana di cure palliative, Giorgio Trizzino, ci tiene però a precisare: «La legge su queste terapie è appena entrata in vigore: se verrà applicata con intelligenza, se si creeranno strutture adatte, le cure palliative saranno davvero l’alternativa al desiderio di eutanasia da parte di alcuni pazienti».

E anche lui, nonostante dichiari – a nome della sua associazione – il no all’eutanasia, ammette che è un discorso da riaprire: «I tempi sono maturi per parlare di terminalità e di tutte le questioni che ne scaturiscono». Quali le proposte in campo, allora? Da un lato, la Consulta di bioetica – nata nell’89 dall’iniziativa di medici, giuristi e filosofi laici – vorrebbe introdurre una “carta di autodeterminazione” con cui una persona sana dà disposizioni circa le cure che vorrà ricevere in caso di malattia. «Qui l’eutanasia non c’entra», precisa Defanti, «noi crediamo nella gradualità». Solo il passo successivo sarà quello di portare il tema dell’eutanasia attiva in Parlamento. «Una nostra proposta di legge giace lì da tre anni». Più agguerrita sul versante legislativo è l’associazione “Exit Italia”, che conta 1400 iscritti e fa parte di un network internazionale. «Ho visto mio padre e uno zio morire di cancro fra sofferenze indescrivibili», dice Emilio Coveri, il presidente, «e come me altri nostri soci. Siamo per l’eutanasia attiva, quindi escludiamo l’intervento su persone in stato di coma vegetativo. L’eutanasia deve liberare dal dolore e restituire dignità alla morte».

“Exit” si batte per legalizzare il cosiddetto testamento biologico, o living will: una disposizione scritta, firmata in presenza di tre testimoni quando si è nel pieno delle proprie facoltà mentali, chiedendo il trattamento eutanasico in caso di grave malattia, senza speranza di guarigione e con insopportabile dolore. «Non facciamo differenza», spiega ancora Coveri, «fra eutanasia attiva e suicidio assistito, fra il modello olandese e quello svizzero, per intenderci. L’importante è che sia il medico sia il giurista dispongano di questo documento per poter interrompere le sofferenze di un uomo che comunque è condannato». Niente punibilità, dunque. Posizione, questa di “Exit”, più netta rispetto alla Consulta di Bioetica. E infatti non si ignorano ma procedono su binari distinti. Non chiedono alla Chiesa un’apertura, ma vorrebbero che in Italia se ne parlasse senza rigidità. Una variante di quell’ambiguità costruttiva che per Sherwin Nuland, fondatore del primo ricovero americano per malati terminali e autore di Come moriamo, è l’unica via per parlare di eutanasia senza andare fuori tema.

Qui si pratica già
Ma l’olanda non è sola

Dal 10 aprile 2001, l’Olanda è l’unico Paese al mondo a riconoscere legalità all’eutanasia attiva: il malato la può chiedere quando è nel pieno delle sue facoltà, o può lasciare una richiesta scritta che delega al medico la decisione, nel caso le sue condizioni peggiorassero. Anche in Oregon (Usa) l’eutanasia è legale, ma nella forma del suicidio assistito: il medico può prescrivere farmaci letali al paziente che ha pochi mesi di vita, ma non somministrarli. Questo Death with dignity Act è in vigore dal ’97 e prevede condizioni più rigide che in Olanda: il malato deve fare due richieste distanti nel tempo e due medici devono confermare la diagnosi. In Australia, per circa un anno l’eutanasia attiva è stata legale nelle regioni del Nord: dal luglio ’96 al marzo ’97, quando il Parlamento abrogò la norma. In Colombia, Belgio e Svizzera la pratica non è legalizzata ma tollerata, soprattutto nella forma del suicidio assistito. Mentre in Germania, nonostante singole sentenze favorevoli, il termine evoca ancora lo sterminio nazista degli invalidi e dei malati di mente.

Parole chiave
Tre strade verso la morte

Non c’è un solo modo per morire “con dolcezza”, e anche i medici corrono rischi molto diversi a seconda della via scelta dal paziente. Ecco le tre espressioni chiave.
Eutanasia attiva: il medico prepara un cocktail letale e lo inietta al paziente che glielo ha esplicitamente richiesto. In Italia è un reato: omicidio del consenziente, che prevede da 6 a 15 anni di carcere.
Suicidio assistito: il medico fornisce al paziente il cocktail per suicidarsi e lo assiste durante il trapasso, ma non glielo somministra. Da noi commette comunque il reato di omicidio del consenziente.
Eutanasia passiva: dicitura scorretta. Si interrompe l’alimentazione o si spengono i macchinari che tengono in vita un uomo clinicamente morto. Si riunisce una commissione di medici per valutare, e il paziente è posto in osservazione per 12 ore. La deontologia prevede l’intervento quando le cure siano solo accanimento terapeutico. Cioè senza alcuna speranza.

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