Welfare

Il caso Lecco. Come si è arrivati ai recenti omicidi

I luoghi in cui il Manzoni ambientò le vicende de I promessi sposi tornano a essere teatro di episodi drammatici, dall’assassinio del benzinaio ai delitti dell’infermiera.

di Riccardo Bonacina

La voglia di denaro facile che ha spinto due ragazzi di 17 e 18 anni (Domenico e Davide) a sparare a un benzinaio, abbastanza anziano da non incutere timore; il desiderio patologico di primeggiare, che ha indotto un?infermiera a provocare situazioni di emergenza per essere poi la prima a intervenire, causando invece la morte di almeno sei pazienti all?ospedale di Lecco: non sono in sé storie più terribili di quelle raccontate da Alessandro Manzoni ne I promessi sposi. Anzi, le vicende dei Bravi, del Griso, di don Rodrigo, dell?Innominato, della monaca di Monza sono ancor più spesse e torbide. Simile è anche la toponomastica che fa da scenario sia alla vicenda raccontata nel romanzo sia della cronaca di queste settimane: tutto si svolge tra la Brianza (a Tavernerio dove abita Sonia Caleffi, l?infermiera) e Chiuso, periferia di Lecco, appena sotto i ruderi di quello che viene indicato come il Castello dell?Innominato. Nessuna spiegazione sociologica e neppure il succedersi dei due episodi servono a spiegare qualcosa in più della palpabile preoccupazione e confusione dei cittadini di quella che è stata ed è la mia bellissima città. «Due ragazzi da bar come tanti», scrivono i carabinieri di Lecco. E riferendosi al più giovane dei due, 17 anni, notano: «Licenza media ed educazione religiosa alle spalle». Una nota biografica che potrebbe appartenere a Renzo Tramaglino. Eppure Domenico e Davide, il 25 novembre, hanno sparato a Giuseppe Enrico Maver, 60 anni, davanti al suo distributore di benzina. Il tutto per qualche euro in più. «Che cosa ho fatto?», avrebbe detto Domenico durante gli interrogatori. «Almeno voi non lasciatemi sola», è l?appello di Sonia Caleffi ai suoi disperati genitori. Persino nelle domande che affiorano dal tumulto di dolore e di vergogna dei protagonisti delle due vicende, e dei loro genitori («Darei la mia vita per restituire Giuseppe ai suoi cari», dirà il padre di Domenico), riecheggia una certa classicità di sentimenti ed emozioni. Che c?è dunque di strano in quel che è successo nella «floridissima terra di Lombardia», così la chiamava il Manzoni, e che tale ancor oggi rimane? Che nome dare a ciò che tutti sentiamo essere assente e che pur percepiamo così presente nel suo mutismo, nel suo silenzio? Cosa dunque si è strappato per sempre su «quel ramo del lago di Como, che volge a mezzogiorno»? Cosa fa rimanere per anni e anni tanti ragazzi incoscienti e sballottati tra il bene e il male, senza che essi abbiano la percezione vera di cosa davvero sia il bene e di cosa sia il male? Se ci è concesso azzardare una risposta suggerita dalla prossimità e dall?affetto a chi quel territorio, Lecco, continua, a differenza mia, ad abitare e a curare, si è persa, si è strappata quella grammatica veramente manzoniana che sapeva tenere insieme il cielo con la terra, la capacità di costruzione con il senso della durata, una moralità mai moralistica capace di ricomprendere in un disegno positivo ogni delitto come ogni santità. Il senso della Provvidenza, scriveva il Manzoni, che è poi il senso che la vita non ci appartiene, né la nostra né quella degli altri, e che però la vita ha bisogno di noi, di ciascuno di noi, di ciascuna delle nostre fatiche anche domestiche, anche umili e umilissime, per continuare il suo cammino. Agnese, la mamma di Lucia, in una delle ultime pagine de I promessi sposi, ai due giovani dirà: «Vedete, figliuoli, la Provvidenza l?è una gran cosa! Un gran respiro per questo povero paese!». Ecco, ciò che manca è questo respiro («Il faut respirer», era del resto scritto anche sui muri di Parigi nel maggio 68), il respiro di un?appartenenza a qualcosa di così grande da non proporsi come una galera ma come un allargamento del proprio sguardo, un sostegno alla vita, un orizzonte dentro il quale cominciare, o ricominciare, a costruire e non più solo a consumare. Bisognerà, prima che anche le radici più preziose della nostra cultura si inaridiscano definitivamente, che qualcuno riprenda in mano quella grammatica manzoniana, la provi a coniugare oggi, con coraggio, con responsabilità, affinché il nostro vivere ritrovi la misura della vita stessa ch?è una misura capace di misurarsi con il tempo, l?eternità. Questa è una domanda, quasi un?invocazione a chi amministra, a chi educa, a chi fa impresa, a chi si impegna nel sociale. In queste stupide settimane in cui si è discusso di presepi e di cappuccetto rosso, di taglie e di sceriffi, a qualcuno sarà venuto in mente, a Lecco, di riprendere in mano Manzoni? Di riproporne una lettura pubblica, o almeno comunitaria?


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