«Spinto dalla perdita di mio padre per colpa dell’Alzheimer, per onorare la sua memoria sto spingendo i miei limiti fisici. Desidero diventare uno Swissman e dedicare questo traguardo a lui. Questo è il mio tributo alla sua forza e alla sua sfida a quella malattia che ce l’ha rubato». Questa la presentazione di Davide Mangani presente nell’elenco degli iscritti al Swissman Xtreme Triathlon, 250 fortunati provenienti da 43 paesi ed estratti a sorte sui 1000 che ogni anno cercano di partecipare a una delle imprese più sfidanti e spettacolari che, oltre alle lunghe distanze tipiche del triathlon super lungo, senza marchio Ironman, aggiunge 5575 metri di dislivello. In tutto gli atleti percorrono 226 chilometri: 3.8 km di nuoto, frazione che si svolge nel Lago Maggiore; 180.2 km in bici, superando tre importanti passi di montagna, il Passo del San Gottardo, della Furka e il Passo del Grimsel; e, per finire, senza sosta alcuna, si riparte a piedi, correndo 42,195 km (una maratona) di corsa in salita.
La Swissman si svolgerà il 21 giugno: «Non sono credente ma non ho potuto fare a meno di notare che è il giorno di San Luigi e mio papà si chiamava Luigi» ci racconta Davide, napoletano, 34 anni, che di Alzheimer precoce ha visto morire prima lo zio e poi il padre quando lui aveva solo 23 anni, dopo cinque anni di rapida malattia.
Sarà un esordio su questa distanza, per il quale si allena dalle 18 alle 22 ore a settimana nelle tre discipline oltre alle sedute di potenziamento, con due sessioni quotidiane una mattutina e una serale, non solo per elaborare il lutto ma anche per sensibilizzare sui bisogni delle famiglie che convivono con la demenza. Davide sta raccontando il suo percorso di allenamento sui suoi canali Instagram (instagram.com/dr_immunoman) e Youtube (youtube.com/@dr_ImmunoMan).

Tanto stigma, nessun supporto
«Lo stigma che ancora avvolge l’Alzheimer rovina i pazienti e i loro familiari, che sono già alle prese con una situazione di grande sofferenza data dalla malattia e sono costretti a farcela da soli, senza sostegno e magari provando della vergogna. Spesso non c’è nessuna connessione reale con la comunità intorno e con la società civile. Nel caso delle forme precoci, spesso c’è anche l’ombra della discriminazione perché potresti essere portatore di una vulnerabilità alla malattia» ci spiega. «Se solo allora fossi entrato in contatto con Federazione Alzheimer Italia! È una vera ancora di salvezza per tutti, con il loro supporto e la loro accoglienza». Davide parteciperà questa sera 9 aprile 2025, alle ore 18.30, in diretta su Zoom con Federazione Alzheimer Italia in un webinar dedicato alle demenze a esordio giovanile.

Il papà di Davide viveva in una città vicino a Napoli e il figlio andava a trovarlo ogni volta che poteva. «L’autunno dell’anno in cui è morto, sono partito per un dottorato in biologia del cancro a Zurigo» racconta il ricercatore che, dopo sei anni come post-doc in immunologia all’Harvard Medical School, nel 2022 è tornato in Svizzera all’Institute for Research in Biomedicine di Bellinzona. Gli sarebbe piaciuto occuparsi di patologie neurodegenerative ma paradossalmente, dice, «mi sembrava quasi si potesse pensare che le studiavo per interesse e non per “passione pura”». E, comunque, con una curiosità più tipica del ricercatore che del clinico, ammette che a intrigarlo di più sono state le dinamiche in atto nel cancro, viste da una prospettiva evoluzionistica, dove le cellule d’improvviso cessano di comportarsi in maniera coordinata e funzionale all’organismo e, come individui anarchici che distruggono tutto il resto, eludono i meccanismi di controllo, sfruttando le risorse circostanti per la propria sopravvivenza a discapito di quella dell’organismo.
L’importanza di sapere e parlarne
«In mio zio, la patologia è stata molto più lenta e meno aggressiva. Da medico, l’ha vissuta con grande consapevolezza e senza coinvolgere gli altri. Mio papà, anche caratterialmente, era una persona diversa» ci racconta Davide. Se ci fosse stato meno stigma verso la malattia e se ne fosse parlato più apertamente, cosa sarebbe andato diversamente? «I punti interrogativi sono tanti. Col senno di poi è difficile dire. Credo l’avremmo vissuta diversamente. Avrei potuto chiedere, capire e anche supportare meglio mio papà che, a pensarci oggi, deve aver sofferto la solitudine e il peso della patologia che magari sapeva incombere, nascosto dietro la maschera dell’andrà tutto bene. Forse avremmo potuto parlarne e sostenerci a vicenda».

Convivere con il senso di impotenza
Certe cose possono essere raccontate ma spesso è solo provandole che le si capiscono davvero. Rivolgersi alle discipline di endurance non è atipico in chi affronta un grande dolore, una separazione o un lutto. «Chi convive con la malattia di un proprio caro, anche chi non finisce nella depressione, vive comunque uno stato di inerzia, dove qualsiasi emozione, pensiero o azione sembra irrilevante di fronte a quello che sta vivendo. Il problema più grande è il senso di impotenza» ci spiega. «Quindi, l’importante non è quanto uno spinga il proprio corpo al limite. Questo funziona per me. Ciascuno deve trovare qualcosa che diventi il suo prossimo obiettivo, capace di smuoverlo dallo stato di sofferenza». Davide ci tiene a spiegare meglio: «Per me, l’importante è migliorarmi continuamente e spingermi fino ai limiti delle mie capacità fisiche. In questo vorrei essere di ispirazione, nell’invitare ad andare oltre quello che siamo, a trovare qualcosa per cui si è disposti a mettersi in gioco, a uscire dalla comfort zone in cui ci perdiamo nella futilità pur di non pensare».

Si impara a stare, è come meditare
E non si pensi che l’estrema fatica di queste imprese non abbia nulla a che fare col pensiero. Al contrario. «Quando si parte per un’uscita che può durare fino a nove ore di bici o fino a cinque ore di corsa, questi sono all’incirca i lunghi del sabato e della domenica, all’inizio sembra difficile. Il pensiero è opprimente: ci si concentra sull’arrivo, che appare lontano nel tempo e nello spazio e questo crea uno stato di ansia e di incertezza sulle proprie capacità» ci spiega. «Oggi, si vuole tutto e lo si vuole subito e non si impara l’importanza dello stare in una situazione, per quanto scomoda o dolorosa». L’endurance te lo insegna: «Dopo un po’, se si ha la pazienza di superare la prima fase e ci si concede solamente un altro po’, un’altra pedalata, un altro chilometro, un’altra bracciata, si entra in uno stato di calma. Mi verrebbe da dire il cervello cambia registro, ma sia chiaro che è una metafora, anzi una fallacia [la fallacia cosiddetta del doppio soggetto, che tratta il cervello e l’individuo come due soggetti indipendenti che posso persino avere interazioni]» ci racconta scherzando. «Stai lì da solo con i tuoi pensieri che arrivano. Tutto diventa ritmo e pensiero ripetitivo, ritmo e pensiero ripetitivo. Proprio quello stato che nella pratica meditativa si ottiene intenzionalmente attraverso il controllo dell’attenzione e del respiro, negli sport di endurance avviene naturalmente». E a chi ribatte: ma la fatica? La risposta è immediata: «Non c’è nulla di più appagante». Tra l’altro, è tutto così coinvolgente che non ci si accorge del passaggio del tempo, garantisce il triatleta che aggiunge: «Paradossalmente è nelle uscite brevissime, quelle di un’ora, che mi annoio».
L’esperienza è il viaggio
«Sto lì, imparo a conoscermi, ricevo un flusso continuo di immagini e di pensieri, che vanno dai ricordi come quello di papà alle paure per il futuro, pensieri di realtà dalla quale si cerca comunemente di evadere. Non dico che sono ricordi più fedeli di quelli che evochiamo quando indugiamo nelle nostre memorie ma sono, in un certo senso, meno filtrati dalla cognizione». Mostrare a se stessi che ce la si può fare regala una grande forza interiore. Tuttavia, secondo Davide, il principale regalo che questa impresa gli sta regalando non è il traguardo ma il viaggio di preparazione. «Restando con me stesso durante i lunghi allenamenti ho scoperto che, dopotutto, non è male quello che ho dentro. Mi sono simpatico».

Il prossimo progetto
Non si parla di progetti futuri, ogni programmazione essendo rimandata a domenica 22 giugno. Tuttavia, «mi piacerebbe, coinvolgendo anche il network della Dian (Dominantly Inherited Alzheimer’s Network) che coordina la più grande iniziativa di ricerca clinica a livello mondiale per le forme precoci, percorrere a tappe in bici la strada da Bellinzona fino a Lamezia Terme, paese natale di mio papà, raccontando la mia storia e visitando in ogni tappa altre famiglie che convivono con l’Alzheimer precoce. Dopotutto, la parte estrema della vita non è fare un Ironman Xtreme ma affrontare la patologia dei nostri cari».
Mia madre Giovanna è una roccia
Nell’immediato, ci sono le vacanze: «Il sabato di Pasqua ho in programma di pedalare 8 ore, correre un’ora e nuotare mezz’ora. La domenica di Pasqua, ho tre ore di corsa, un’ora di bici e un allenamento di forza». Ciò significa tornare a Napoli con la bici al seguito. Finalmente qualche giorno con la mamma Giovanna: «è lei che mi ha cresciuto, a lei devo tutto. È una roccia. Senza il suo amore incondizionato, le sue giuste critiche e il suo inestimabile supporto non sarei quello che sono oggi. La mia forza e la mia tenacia sono le sue».
Foto di Davide Mangani
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