Welfare

Commerci. Siamo alla vigilia di una rivoluzione. 2005, il tessile senza frontiere

Dal primo gennaio scatta lo smantellamento delle quote. Per l’abbigliamento è la completa liberalizzazione.

di Francesco Maggio

La questione è tanto antica quanto irrisolta: i diritti si affermano di pari passo con il libero mercato? La libera circolazione delle merci agevola la diffusione della democrazia? Dal primo gennaio 2005 tali interrogativi torneranno prepotentemente alla ribalta. Con l?inizio del nuovo anno, infatti, viene completamente liberalizzato il commercio mondiale di fibre, tessuti, filati, capi d?abbigliamento. Rimangono i dazi, ma le quote vengono del tutto smantellate. Erano in vigore dal 1974, imposte dai Paesi occidentali a quelli in via di sviluppo ed erano gradualmente state fatte calare. Il Paese che più trarrà vantaggi sarà naturalmente la Cina che già oggi è il maggior esportatore al mondo di abbigliamento (20,6%) ed è secondo, dietro l?Unione europea, in quello dei tessuti.
Non si tratta di un fulmine a ciel sereno, beninteso: gli accordi che stabilirono questa ?apertura? furono presi dieci anni fa a Marrakesh. Ma la vera novità è rappresentata dall?ingresso, due anni fa, della Cina nel Wto, l?organizzazione mondiale del commercio che, peraltro, proprio il primo gennaio 2005 compie i suoi primi dieci anni di vita.
Se risulta facilmente comprensibile la minaccia che un simile evento può rappresentare per il tessile di casa nostra, che già oggi non se la passa molto bene (sono 2,6 milioni le persone che lavorano nel settore in Europa), si può parlare però anche di opportunità per la Cina in fatto di diritti umani e dei lavoratori?
Le nostre imprese riusciranno a fronteggiare la concorrenza asiatica esportando non solo prodotti di più alta qualità ma anche diritti e democrazia? A patto che, evidentemente, siano davvero eticamente più corrette, circostanza questa non affatto scontata, come risulta nel caso dell?abbigliamento sportivo che vede Fila e Diadora destinatarie di un severo 3 in pagella assegnato loro dall?agenzia belga di rating etico Ethibel.
«Io non sottovaluterei le opportunità in termini di integrazione e stimoli sociali che la data del primo gennaio 2005 racchiude», esordisce Pier Paolo Beretta, responsabile per la Cisl dei temi della responsabilità sociale d?impresa, «anche se ciò non annulla le contraddizioni che sono a mio avviso di due tipi: squilibri politici sui diritti; squilibri sulle condizioni di lavoro. In Paesi come la Cina si uniscono entrambi gli squilibri, nell?Est europeo si stanno superando gli squilibri politici ma restano quelli riguardanti le condizioni di lavoro».
«Io credo», aggiunge Beretta, «che sia un errore quello di voler affrontare il nuovo chiudendosi, il protezionismo non ha futuro, bisogna invece aprirsi e far marciare insieme l?integrazione dei mercati con quella democratica, riconoscendo in questo processo un ruolo da protagonista all?Ue e alle imprese europee che possono fare molto introducendo elementi ?minimi? di democrazia. Per esempio, favorendo il dialogo con i sindacati. Anche la Cina dovrà fare i conti con la libertà ma non bisogna aspettare la rivoluzione affinché questo avvenga».
Decisamente più scettica si dichiara Marina Salamon, imprenditrice del tessile, da sempre particolarmente attenta ai rapporti tra etica e affari: «Sono molto pessimista sui diritti umani», sottolinea, «perché i cinesi mi hanno sempre spaventata molto per via della loro capacità di sfuggire al confronto sia su questioni di lavoro che di natura umana, sono specialisti nel sorridere e non ascoltare. Io non credo che l?economia aiuti lo sviluppo dei diritti civili e comunque affinché ciò accada ci vuole molto tempo e finora solo gli Stati Uniti e l?Europa sono stati in grado di far crescere entrambi assieme. Ritengo invece molto più probabile che dal comunismo ci si possa evolvere verso un capitalismo selvaggio e tutto questo mi spaventa».
Per Gianni Brovia, direttore dell?area relazioni internazionali di Sistema moda Italia siamo invece in presenza di una grande occasione che non va assolutamente sprecata: «Già oggi molti imprenditori italiani sono presenti in Cina con successo, penso per esempio alla Ermenegildo Zegna che ha aperto 50 negozi o a Benetton. Adesso si tratta di pigiare sull?acceleratore e sono convinto che si avranno anche importanti ricadute sulla qualità della vita lavorativa cinese».

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