Economia

Coop sociali: perché vince il modello multistakeholder.

di Carlo Borzaga

La cooperazione sociale non è mai stata un fenomeno unitario. Nate da ceppi culturali e concezioni diverse del ruolo sociale della cooperazione, da culture imprenditoriali e da bisogni di territori diversi, le cooperative sociali hanno assunto in alcuni contesti più i caratteri dell?azione volontaria, in altri soprattutto quelli della cooperazione tra lavoratori desiderosi di lavorare nel sociale, con molte situazioni intermedie. La stessa legge istitutiva, la 381 del 1991, approvata quando il fenomeno era già diffuso, non ha preso posizione a favore dell?uno o dell?altro modello, limitandosi a stabilire, come unico vincolo alla composizione della base sociale, che i soci volontari non superino il 50% del totale. La crescita del fenomeno, seguita all?approvazione della legge e l?ampliamento dei settori di intervento (dai servizi socio-assistenziali e di inserimento lavorativo e attività in ambito formativo, culturale, ambientale, ecc.) ha contribuito a rendere ancora più articolato il panorama dei modelli organizzativi, sia della cooperazione sociale che delle altre forme giuridiche non profit, in particolare con l?ingresso nella base sociale di enti pubblici e soci sovventori. Questa evoluzione, anche se ingenera qualche confusione, non va giudicata negativamente. Essa va piuttosto letta all?interno di una dinamica di avvicinamento, per prove e tentativi, delle forme organizzative alla specificità dei beni e servizi prodotti; come ricerca di modelli che garantiscano, meglio di quelli tradizionali, sia una maggior efficienza che una più soddisfacente risposta ai bisogni che le nuove organizzazioni si propongono di soddisfare. Ciò non significa tuttavia che tutte le forme organizzative e tutti gli assetti proprietari vadano considerati ugualmente innovativi e appropriati. Non lo sono, anche se possono essere in grado di dar risposta ad alcuni bisogni, le cooperative e, più in generale, le imprese sociali formate da soli soci lavoratori. Esse infatti, pur rispondendo a legittime istanze occupazionali e pur riuscendo, almeno in alcuni casi, a coinvolgere più degli enti pubblici e delle organizzazioni for profit i lavoratori nel perseguimento della mission dell?impresa, non tutelano necessariamente gli utenti più delle imprese a scopo di lucro. Non sono neppure particolarmente innovative le cooperative, e soprattutto le imprese sociali, di soli utenti o di soli volontari (come nel caso delle organizzazioni di volontariato che gestiscono servizi utilizzando lavoratori remunerati), perché esse raramente riescono a coinvolgere i lavoratori e a valorizzare il loro contributo sia ideale che professionale. Il modello più innovativo di cooperazione e impresa sociale resta dunque quello che prevede l?attribuzione di potere decisionale e quindi il coinvolgimento nella base sociale di più categorie di portatori di interesse (volontari, lavoratori, consumatori, finanziatori ecc.), cioè quello che è stato definito multistakeholder. Esso infatti facilita lo sviluppo e il mantenimento di relazioni fiduciarie, l?individuazione dei bisogni, una migliore definizione delle risposte, anche se la sua gestione è più difficile e richiede particolare capacità di ascolto e più equilibrio. Recentemente molti hanno sostenuto che le cooperative sociali multistakeholder sono andate diminuendo, soprattutto nel corso degli anni 90, a causa della riduzione della presenza di volontari. Le ultime ricerche non confermano questa preoccupazione e segnalano invece che il loro peso nel totale è rimasto praticamente costante nonostante la crescita del fenomeno. Una recente ricerca sulla cooperazione sociale nel Trentino Alto Adige conferma questi risultati e dimostra che esistono aree dove la quasi totalità delle cooperative sociali ha saputo mantenere il carattere multistakeholder. E questa è una bella notizia per chi è convinto che queste imprese debbano mantenere questa loro specificità.


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