Generazioni a confronto
Metti un pomeriggio a parlare con mia figlia di Tony Effe
Ma perché hai quella foto di Toni Effe sul telefonino? Tu che c’entri con quei testi violenti e con un personaggio così lontano da te? Lei, Sara Oliva, 16 anni, non si è sottratta alle mie domande. Risultato? La percezione di una distanza incolmabile, ma che forse non va nemmeno colmata

La visione della struggente mini-serie Netflix, Adolescence, mi ha fatto sentire come “schiaffeggiato” dalla perfetta messa in scena della distanza comunicativa siderale che separa la comunità di adulti (che, ingenuamente, crede di essere vicina ai ragazzi) rispetto alla vita parallela di questi ultimi, immersi nella blogosfera. Finita l’ultima puntata, riprendo in mano il coraggio e chiedo a mia figlia: «Ma perché hai quella foto di Toni Effe sul telefonino? Tu che c’entri con quei testi violenti e con un personaggio così lontano da te?».
Sara Oliva, sedici anni a maggio, come sempre non si sottrae al dialogo. Non trova vere ragioni per una giustificazione teorica della sua simpatia verso il cantante, è consapevole che i testi non rispecchiano il suo pensiero e azzarda anche una mossa proibizionista che sembra un ossimoro: «La musica di Toni andrebbe vietata solo ai maschi, che poi magari fanno cavolate dopo che l’ascoltano»; ma difende strenuamente la sua posizione: «A me piace il suo ritmo, il modo in cui tiene i concerti». Tra le righe si capisce che le piacciono anche i suoi addominali in ottima forma…
In un’altra occasione, siamo stati una serata intera a parlare del gender gap degli stipendi delle donne, ed ho scoperto una adolescente preparatissima ed arrabbiata rispetto alle disuguaglianze di genere. Mi ero pertanto illuso che sarebbe stato facile, da parte mia, smontarle l’entusiasmo per un cantante che dice, tra l’altro, che vorrebbe comandare la sua ragazza come un Joystik. Ed invece nulla, non cede.

Ad un certo punto del ragionamento, fa un’osservazione che sembra aprire una crepa nelle sue certezze: «Sono queste le musiche che ci troviamo noi giovani, forse ai tempi vostri anche io avrei sentito Baglioni o De Andrè o i Queen, i Beatles; ma ora non è quella la musica che mi carica e che rappresenta il mio tempo». Provo a difendere la mia posizione asserendo che anche questo tempo ha cantanti molto diversi dal trapper romano, a Sanremo ce ne sono stati diversi. Lei accetta che esistano tante altre proposte, ma poi dichiara che nessuno le dà una carica di energia come quel genere, e rincara: «Toni Effe a Sanremo non mi è piaciuto, era diverso dal suo solito». Insomma, neanche la normalizzazione del maschioalfatrapeffe funzionerebbe: se Tony cambiasse genere, Sara e le sue amiche cercherebbero probabilmente altri trapper da ascoltare.
Parliamo più di quaranta minuti e non c’è una soluzione: non toglierà per il momento quella foto dallo schermo del suo vecchio iPhone, finché le andrà di tenerla, nè io ho alcuna intenzione di imporle una rimozione.
Dai toni di mia figlia, mi viene da pensare che c’è in fondo un’affermazione che accompagna la sua riflessione: «Non prendeteci troppo sul serio, ci piace questo cantante ma non è importante per la nostra vita», e mi viene da pensare che, d’altro canto, se l’altro mio figlio avesse avuto una foto di Elodie sul suo screen saver non gli avrei fatto alcuna domanda sui testi della cantante, nè mi sarei interrogato più di tanto sui perché… probabilmente dalle ragazze ci aspettiamo sempre di più.

E, pensando alle ragazze, il pensiero va ad un film, alla giovane “eroina” degli Oscar, Anora. Una storia semplice; eppure, così inaccettabile per noi adulti. Perché il racconto ipersessualizzato e ipertutto di una ragazzina ha addirittura vinto lo stesso premio de “La Vita è bella”, l’Oscar come miglior film? La risposta che mi sono dato è che il film sia un piccolo gioiello proprio perché non fa sconti nel linguaggio a noi adulti. Parla di una vita fintamente consapevole ed autodeterminata che in fondo non si prende sul serio, ma che prende quello che c’è, finché c’è. Questa sensazione di lost in translation, di smarrimento comunicativo, non è solo una sconfitta e non è per forza una sfida, ma è certamente una dichiarazione di distanza. Quel linguaggio per noi assurdo è stato sdoganato ai massimi sistemi (non è volgarmente e violentemente “trap” il video sul futuro di Gaza divulgato da Trump?), ed esiste come uno dei tanti linguaggi artistici per i nostri figli, che lo usano fin quando gli va.
La prima regola della comunicazione è entrare in contatto con l’altro per come l’altro è e non per come vorremmo che fosse; ed oggi, la trap, con tutti i suoi testi smaccatamente immorali, esiste. Oggi, come dice candidamente Sara Oliva, è quella la proposta maggiore che è arrivata agli adolescenti, non c’è niente di serio nell’ascoltarla per molte di loro, non è un ascolto che apre ad una lotta ideologica o una militanza, come accadeva con il rap di protesta. Si usa la trap per accompagnare le giornate, per prepararsi il sabato sera, per studiare, per condire i social. Anche i ragazzi sanno che quella musica è potenzialmente pericolosa (per l’uso che ne fanno le baby-gang). Ma negarla sarebbe come stringere un nodo gordiano: un divieto di trap la farebbe diventare una questione di “libertà” per qualsiasi ragazzo o ragazza, fino a farla diventare un “simbolo” del conflitto generazionale, cosa che oggi non è.
Cosa ci tocca fare nel mezzo di questa distanza? Probabilmente, come è stato già scritto qui su VITA, ci tocca solo accettare il mistero. Quel mistero profondo per cui i padri, come quelli di Adolescence, possono trovarsi a fare i conti con emoticons ed emoji indecifrabili, oppure semplicemente trovarsi ad assistere ad una fase leggera della esistenza dei propri figli. Il mistero non si spiega e non si piega alla prova del reale e del razionale, si può solo accogliere, amare.
I figli, in fin dei conti, non costituiscono un percorso razionale, ma lo svilupparsi di un mistero vitale in cui noi educatori e genitori siamo certamente chiamati in causa, non per forza nel ruolo di salvatori o colpevoli; anche semplicemente come testimoni di un mistero che ci supera. Alla fine dell’intervista a mia figlia, posso solo rifugiarmi nei miei miti, canticchiando con De Gregori che «non c’è niente da capire», una strofa che da ragazzo pensavo fosse solo una bella canzone ed oggi è invece mi appare come un manifesto della leggerezza necessaria.
Foto: La Presse
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