Testimonianze
Io, donna trans in un carcere maschile
Sono sei in Italia gli istituti penitenziari con sezioni riservate alle persone transgender. Ma c’è chi sceglie un percorso diverso. Come una persona in esecuzione penale nella Casa Circondariale di Matera, che ha preferito restare nella sua sezione, affrontando la convivenza, l’affermazione della propria identità e l’umanità possibile tra le mura di un penitenziario

Condivido la cella con altri uomini. Ci viviamo in quattro. Io ho il mio angolo, il mio letto, le mie cose. Non è facile, ci sono momenti d’imbarazzo, a volte anche difficili da spiegare. Ma qui, nonostante tutto, ho trovato rispetto. Anche da parte degli agenti: molti si rivolgono a me usando il femminile, e per me questo significa moltissimo». Abbassa gli occhi, si guarda attorno. Le pareti sono completamente spoglie. La stanza, piccolissima, con solo una scrivania al centro e due sedie una di fronte all’altra, è quella riservata ai colloqui con gli avvocati, nella Casa Circondariale di Matera. Si sistema i capelli dietro le orecchie e continua: «Loro mi chiamano per cognome, mentre gli altri detenuti usano il mio nome, quello che mi sono scelta quando avevo diciotto anni. Anche se i miei documenti ancora riportano il vecchio nome maschile che i miei genitori avevano scelto per me».
Non è la normalità. Difficile capire quale sia la normalità nei penitenziari italiani per le persone transgender: ancora frammentaria, precaria e spesso invisibile. I dati più aggiornati, contenuti nel Rapporto Antigone 2023, parlano di circa settanta persone con disforia di genere recluse in Italia, collocate in sezioni protette riservate a persone transgender. Si tratta però di circuiti informali, non veri e propri regimi giuridicamente riconosciuti, distribuiti in sei istituti penitenziari: Rebibbia Nuovo Complesso, Como, Reggio Emilia, Napoli Secondigliano, Ivrea e Belluno.
«Sì, conosco quelle sezioni. Mi hanno proposto il trasferimento, ma io non voglio. Ho alcune amiche che vivono lì. Sulla carta, i padiglioni riservati sembrano una soluzione perfetta, un esempio di progresso. E forse potrebbero esserlo, un giorno. Ma chi li vive mi racconta di agenti che si sentono messi in trincea, mi raccontano di ambienti isolati e chiusi al resto del carcere. Invece io qui frequento i laboratori, partecipo a messa, vivo come tutti gli altri. Altrimenti, garantisci i diritti sulla carta, è vero, ma se non c’è un vero lavoro sulla comprensione reciproca, è tutto inutile».
Essere collocati in “circuiti” informali e trattati come un’eccezione nel sistema penitenziario può alimentare dinamiche di pluri-stigmatizzazione ed emarginazione, trasformando la detenzione in un’esperienza ancora più afflittiva
Rapporto Antigone 2023
«Non dico che la condizione di serenità che io sono riuscita a costruirmi qui possa essere la regola valida per tutte le persone. So bene che molto dipende anche dalla mia personalità, dal mio carattere forte: io non mi lascio calpestare da nessuno. Sono sempre stata una leader, fin dai tempi della scuola. Ma sono consapevole che una persona più fragile potrebbe essere vittima di abusi. Tuttavia, per come sono fatta io, qui riesco a vivere. Mi sento vista, e rispettata».
Questa testimonianza è stata raccolta all’interno della Casa Circondariale di Matera, grazie al lavoro del periodico S-Catenati, edito dall’associazione di volontariato Disma odv. Il giornale è realizzato in collaborazione con una redazione composta da persone in esecuzione penale all’interno dell’istituto penitenziario materano. I virgolettati pubblicati in questo articolo sono tratti da una delle storie contenute nel numero di marzo della rivista, che sarà presentato al pubblico giovedì 27 marzo alle ore 20, presso l’auditorium di Cristo Re a Matera, durante un reading teatrale dedicato. La lettura scenica sarà a cura di Barbara Scarciolla di IAC – Centro Arti Integrate.
In apertura foto della Casa circondariale di Matera
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