Il caso
Stati Uniti, Greenpeace a rischio chiusura per una causa da 300 milioni di dollari
Intentata da a Energy Transfer, la compagnia texana che ha progettato e costruito l’oleodotto Dakota Access Pipeline (Dapl), potrebbe mettere in ginocchio la sezione Usa. Secondo l'organizzazione ambientalista i giudici non sarebbero imparziali e si tratterebbe di un'azione legale intrapresa per intimidire il dissenso

Una causa legale intentata da Energy Transfer, la compagnia texana che ha progettato e costruito l’oleodotto Dakota Access Pipeline (Dapl), potrebbe mettere in ginocchio la sezione americana dell’organizzazione ambientalista Greenpeace (qui la petizione per esprimere solidarietà all’organizzazione).
Energy Transfer accusa Greenpeace International, con sede nei Paesi Bassi, e la sua divisione americana di aver diffuso informazioni false, incitando migliaia di manifestanti a unirsi alle proteste avvenute tra il 2016 e il 2017 contro l’oleodotto Dakota Access e chiede un risarcimento di 300 milioni di dollari. Greenpeace avverte che la vittoria della società texana potrebbe portare alla chiusura della sua sede statunitense.
Il processo è iniziato il 23 febbraio a Mandan, nel North Dakota, in un’area economicamente molto dipendente dall’industria petrolifera, e dovrebbe durare cinque settimane.
L’organizzazione segnala che la giuria è composta da persone appartenenti a una «comunità direttamente coinvolta negli eventi contestati da Energy Transfer». Per questo ha più volte chiesto di spostare il processo in una sede più imparziale, ma le richieste sono state respinte.

Le proteste oggetto del procedimento risalgono al 2016, quando i nativi americani Sioux che vivono nella riserva di Standing Rock, tra North Dakota e South Dakota, si opposero alla costruzione del Dakota Access Pipeline. La loro preoccupazione era che l’oleodotto, destinato a trasportare petrolio dal North Dakota all’Illinois, attraversando quattro stati, potesse contaminare il fiume Missouri, principale fornitura d’acqua per la tribù e danneggiare i loro territori. Le azioni repressive della polizia spinsero centinaia di nazioni tribali, migliaia di attivisti e molte organizzazioni, tra cui Greenpeace, a unirsi alla mobilitazione, dando vita a un vasto movimento di solidarietà.
Secondo Greenpeace, che sostiene di avere semplicemente preso parte alle proteste come molte altre realtà ambientaliste e della società civile, la causa intentata da Energy Transfer rappresenta un caso di Slapp, acronimo di Strategic lawsuit against public participation, cioè un’azione legale intrapresa non per ottenere una vittoria, ma per intimidire e mettere sotto pressione chi viene citato in giudizio, scoraggiando il dissenso. A inizio febbraio, Greenpeace ha avviato un’azione legale contro Energy Transfer in un tribunale olandese, in quello che definisce il primo caso giudiziario basato sulla direttiva anti-Slapp dell’UE.
L’organizzazione chiede il risarcimento di danni e spese legali derivanti delle «cause legali consecutive e infondate» intentate da Energy Transfer contro Greenpeace Usa e altre organizzazioni affiliate, per un valore complessivo di centinaia di milioni di dollari. Nel 2017, sempre in merito alle proteste legate all’oleodotto Dakota Access, Energy Transfer aveva già citato in giudizio Greenpeace sulla base del Rico Act, una legge solitamente usata contro il crimine organizzato, ma il caso fu archiviato per insufficienza di prove.
«Al di là delle gravi ripercussioni che questa causa potrebbe avere su Greenpeace negli Stati Uniti, uno degli aspetti più preoccupanti di questo caso giudiziario è che potrebbe stabilire nuovi pericolosi precedenti legali e consentire di incolpare chiunque partecipi a una protesta per le azioni commesse da altri», ha commentato Deepa Padmanabha, consulente legale di Greenpeace Usa. «Tutto questo avrebbe come effetto quello di scoraggiare chiunque voglia prendere parte a una protesta pacifica».
Molti esperti ambientali e di libertà civili si mostrano preoccupati per le conseguenze che cause come questa potrebbero avere sulla libertà di parola, sulla partecipazione democratica e sull’attivismo in generale. «Siamo fiduciosi che Greenpeace avrà la meglio e che riusciremo ancora una volta a dimostrare come la difesa dell’ambiente e del territorio prosegua nonostante le intimidazioni», ha detto Simona Abbate, Campaigner Clima & Energia di Greenpeace Italia. «È preoccupante, però, assistere a un uso sempre più diffuso delle Slapp. Sono strumenti pensati per bloccare il dissenso e mettere a tacere chiunque esprima opinioni critiche. Ciò che sta accadendo alla nostra organizzazione è solo un esempio di un fenomeno sempre più frequente. L’esito di questa causa potrebbe creare un precedente per le industrie fossili, rafforzando l’uso di queste strategie per silenziare il dissenso».
Foto: Greenpeace
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