Filantropia

Le voci della GenZ e il professor Galiano: cronaca di un sabato diverso

di Giampaolo Cerri

Un grande interprete della generazione dei giovanissimi, lo scrittore Enrico Galiano, chiamato da Fondazione Vincenzo Casillo a incontrarli. È accaduto a Corato, nel Barese, nel cuore della grande azienda molitoria. Dove l'autore ha finito per dialogare anche coi numerosi adulti presenti. VITA c'era

Arrivano presto e in molti, tanto che, anche alla portineria della Casillo Group Spa, uno dei più grandi gruppi molitori d’Italia, alla periferia di Corato nel Barese, tradiscono un po’ di preoccupazione: «Li facciamo già entrare?», chiedono ai colleghi della Fondazione Vincenzo Casillo che hanno organizzato l’evento cui, in tanti vogliono partecipare.

Arrivano a gruppetti, giovani e giovanissimi, talvolta accompagnati dai genitori, alcune volte dai professori. È la Generazione Z di queste parti: ossia una delle zone più abitate del Paese. Volti belli, puliti, di gente che ha domande dentro, su di sé e sul mondo. Sono liceali, anche ai primissimi anni, qualche over 20, studente universitario o laureato già al lavoro ma che alla provocazione di Fondazione non si sono voluti sottrarre: in un’iniziativa era stato proposto di scrivere “al domani”, di immaginare il futuro, quello desiderato, quello temuto o quello che si vuol costruire, per sé stessi e per gli altri.

A ragionare di desiderio

Sabato scorso a ragionare di attese, di desideri, di sogni, la Fondazione guidata da Cardenia Casillo – attenta padrona di casa sfuggente a ogni autocelebrazione – aveva chiamato un grande esperto: Enrico Galiano, insegnante e scrittore, secondo molti osservatori uno che, come pochi altri, è sintonizzato su questa generazione, che meglio la ascolta, la interpreta, la lègge. Per questo, nonostante le 600mila copie vendute in pochi anni e con una manciata di titoli, è uno che si intigna di tornare in classe al lunedì – «Sì, domani suona la campanella», dirà l’indomani al cronista che lo saluta all’aeroporto di Bari – perché di quel rapporto, di quel confronto, ha bisogno come l’aria.

Torniamo però all’auditorium del quartier generale, fra silos imponenti e camion di farina che vanno e vengono, perché c’è un’Italia che ha sempre le mani in pasta (nel senso autentico) e non si ferma mai, torniamo all’auditorium, dicevamo.

Le persone che entrano nella bella sala – tutto l’head-office Casillo è progettato da una mano delicata che ha mixato luce, spazio, linee – si sentono le note dei Pinguini Tattici nucleari. «Sarà un omaggio all’autore che li cita in Una vita non basta (Garzanti)», mi spiega Marilù Ardillo, instancabile raccontatrice dei progetti della fondazione ma, soprattutto, dello spirito che li anima.

E se m’hai visto piangere/Sappi che era un’illusione ottica/Stavo solo togliendo il mare dai miei occhi/Perché ogni tanto per andare avanti, sai, avanti, sai/Bisogna lasciar perdere i vecchi ricordi: tutta la sala risuona.

Caro domani ti scrivo

Oltre che nelle pagine di Galiano e nei suoi personaggi, questi stati d’animo – disincanto, malinconia, ansia, domanda di senso –  si rintracciano anche in alcune lettere di chi ha partecipato a Caro Domani e che vengono lette durante l’incontro. Un giovane, per esempio, che racconta una dura esperienza di vissuto sulla propria pelle: «Ero diverso perché ero troppo introverso, troppo silenzioso in un mondo che gridava. E per questo, caro Domani, ero un  bersaglio facile». Una sofferenza che l’aveva portato ad attraversare il suo proprio deserto, trovando nella scrittura le risorse per ripartire. E ora propone, qui, una Casa del Ritorno, «un  luogo dove chi si è perso possa finalmente ritrovarsi, tornare a se stesso. Un rifugio per chi ha conosciuto  l’isolamento, la vergogna, l’odio di sé».

Un testo così intimo e così vero da far sobbalzare Galiano stesso: «Ma questo ragazzo è già salvo!», dice al microfono, spiegando che quel percorso di pensiero, quella proposta, dicono di un animo che si è profondamente riconciliato con se stesso.

Del resto, lo scrittore stesso, è lui a dirlo, è una grande ascoltatore delle parole altrui, che poi trasfonde nei plot dei suoi racconti e nei suoi personaggi, nelle loro psicologie, nelle loro domande. E tutto nasce spesso da messaggi che gli arrivano direttamente tramite i suoi social. «Ho preso spunto da quelli che mi mandano davvero i ragazzi tutti i giorni. Ne ho proprio uno, recentissimo, di un ragazzino incontrato poco tempo fa, che sta facendo la transizione: mi ha mandato un messaggio per dire di quanto si senta in crisi in un mondo che non accetta i ragazzi diversi come lui, di quanto si senta discriminato, in difficoltà anche a esprimere la propria identità».

Una domanda agli adulti:
«Quale è stato il vostro fallimento?»

Lettere non in forma di lettere, ma nei mille modi in cui si possa comunicare adesso: «Lo fanno ancora, e quando lo fanno, si aprono tantissimo», dice Galiano, ricordando che quando nei tanti incontri a cui è invitato nelle scuole italiane, fa coi partecipanti l’esercizio «di far scrivere su dei biglietti qual è l’errore peggiore della loro vita» e poi, di colpo, punta alla parte più agée dell’affollato uditorio: «Mi piacerebbe rivolgerla agli adulti qui presenti questa domanda».

Quella che richiede ai figli di quella generazione «di essere performanti, di non sbagliare mai». E allora il professor Galiano pone, a quelli che della GenZ proprio non sono, le domande che quella generazione si sente spesso rivolgere.

«Dite la verità, scusate, adulti all’ascolto. Facciamo un sondaggio: alzi la mano chi, quando andava a scuola, ha fatto una cosa di questo tipo. Ha detto: “Ciao mamma, ciao papà, vado a scuola”, ma poi… a scuola non c’è davvero stato, ha preso un’altra strada, ha deviato».

Enrico Galiano dedica una copia di un suo libro a un giovane lettore

La parte matura della platea sorride d’imbarazzo poi, pian piano, leva le mani e ammette “bigiature” a più non posso.

«Oppure», insiste, «che non raccontava a casa dell’insufficienza presa e quanto tempo doveva passare prima di farlo?». Dalla seconda fila, una mamma over 40 ammette, sconsolata, che i suoi lo apprendevano ai colloqui coi professori. E Galiano non molla il colpo: «Vedo gente che alza mani e piedi». Risate generali ma il professore friulano (Pordenone, 1977), col sorriso in faccia, vuol difendere quella generazione dalla durezza delle altre: «Questa generazione che viene spesso vituperata, viene spesso trattata malissimo: “Ecco, sta state sempre al cellulare”. Come se, invece, noi gli adulti, lo mettessimo da parte (ride). E poi ancora: “Siete superficiali”. Non è vero. Anzi, secondo me il problema è che sono, siete, troppo profondi».

Spiega lo scrittore che «vivono in questa ansia per il pianeta, questa paura del futuro, del domani. E hanno ragione, perché vengono bombardati costantemente da notizie che creano paura, vero? E magari guardano negli occhi degli adulti e non vedono quella rassicurazione che cercano e di cui avrebbero tanto bisogno, perché noi stessi adulti siamo in difficoltà in questo presente, giusto? E non riusciamo a dargliela come vorremmo, non siamo in grado di pronunciare quel “tranquillo andrà tutto bene”, perché non lo sappiamo nemmeno noi, se andrà tutto bene».

Mi chiedi come sto e non te lo dirò/Il nostro vecchio gioco era di non parlare mai/Come due serial killer interrogati all’Fbi/I tuoi segreti poi a chi li racconterai/Tu che rimani sempre la mia password del Wi-Fi, risuonano nella testa le note e le parole dei Pinguini.

Lo scrittore invece si dice convinto che “andrà tutto bene”, come si ripeteva a mo’ di mantra, durante la pandemia.

Accadrà «perché loro hanno una cosa che la mia generazione non aveva», sottolinea, «loro hanno il coraggio di essere fragili. Guardate che ci vuole un coraggio essere fragili, a dirlo, sono fragili, che sto traversando un momento difficile che noi non avevamo, soprattutto la parte maschile, di quelli della mia generazione, figuriamoci». E si rivolge a un ragazzino, un 14enne sì e no, con cui aveva parlato prima dell’incontro: «Francesco, devi sapere che quelli della mia generazione, i maschi, eravamo quelli dell’uomo che non deve chiedere mai, che sa sempre cosa fare, eravamo quelli dell’uomo che non piange mai. Io ho mai visto mio papà piangere fino a 11 anni, l’ho visto per la prima volta a quell’età, di spalle, quindi non l’ho visto neanche in faccia perché non voleva farsi vedere, non dove essere lì. E quando l’ho sentito singhiozzare mi è sembrata una cosa che non doveva esistere, cioè una cosa contro natura. Perché lo stereotipo che mi hanno inculcato è che l’uomo non piange e la donna non ha quella che piange. Invece, questa generazione, ci sta dicendo che piangere va bene, che non c’è niente di male di avere i propri momenti di affanno, di difficoltà».

La compagnia teatrale Teatro dei Borgia durante le interviste ai giovaani

Desideri sparsi

Le lettere si succedono una ad una: c’è chi racconta di voler prendere il brevetto da pilota, chi fare un viaggio a New York, chi vorrebbe andare alle Paralimpiadi, chi vorrebbe aprire un atelier di moda ma che fosse anche spazio di incontro fra i giovani o chi, ancora, immagina di tornare in città, per costruirci un luogo sociale dove praticare arte-terapia, in uno slancio in cui si legge la voglia di restituire qualcosa alla comunità che ti ha dato l’inprinting umano, che ha modellato i tuoi connotati affettivi, il tuo modo di guardare gli altri.

La fondazione ha promesso di contribuire a sostenere almeno uno di questi progetti, sorteggiandolo. Alla fine, la mano di un ragazzino di una comunità di accoglienza cittadina, guidata da un attivissimo padre rogazionista – una ragazzina, loro ospite aveva scritto “di voler fare la carabiniera” – estrae il desiderio cui Fondazione Casillo contribuirà: quello di una giovane innamorata dell’atletica leggera, e che vuole seguire un grande gala internazionale che si terrà a Roma a giugno. «Vorrei vedere dal vivo, gli atleti a cui mi ispiro»: un desiderio semplice, alla fine.

D’altra parte, canterebbe la colonna sonora dei Pinguini tattici nucleari, questi sono i giovani «sopravvissuti anche alla fine della storia».

Il personale de La Locanda del Giullare di Andria (Bari) – foto dell’autore

La filantropia quando genera

Tutti loro cercano le stelle che la parola desiderio contiene nella sua etimologia latina. Loro, come i giovani con disabilità che la cooperativa La locanda del Giullare di Andria (Ba) fa lavorare – un loro buonissimo light lunch ha accolto tutti (con l’accezione pugliese dell’aggettivo “leggero” riferito al cibo), o come i giovanissimi videomaker e attori del Teatro dei Borgia, che hanno realizzato in maniera istantanea un video emozionale con le testimonianze di molti.

Pensiero, incontro, testimonianza, relazione: la filantropia, quando è capace di generare, è un grande fattore di coesione e di crescita.

Le foto di questo servizio sono di Maristella Rana per Fondazione Vincenzo Casillo, tranne quelle dell’autore segnalate nelle didascalie.

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