I primi 100 giorni
Ue, un patto per l’industria pulita o cleanwashing?
Ursula von der Leyen non ha menzionato il Green deal nella conferenza stampa sui primi cento giorni del suo secondo mandato. Ha sottolineato invece che la bussola per la competitività e il Clean industrial deal sono ispirati al rapporto di Mario Draghi. Gli attivisti hanno più di qualche dubbio sulla strada che sta prendendo la Commissione Ue, verso una sostenibilità che rischia di essere solo di facciata. Per Andrea Minutolo, responsabile scientifico di Legambiente, «il patto per l'industria pulita è un’opportunità da non sprecare, ma non si deve cedere alle sirene della deregulation»

Promessa mantenuta? Ieri, durante la conferenza stampa sui primi cento giorni del suo secondo mandato, la presidente della Commissione Ue Ursula von der Leyen ha dichiarato che l’esecutivo sta agendo come da programma, per quanto riguarda il capitolo “prosperità”. A fine gennaio c’è stata la presentazione della bussola per la competitività, ispirata al rapporto di Mario Draghi. Subito dopo, sono arrivati la proposta sulla semplificazione e il Clean industrial deal «per garantire imprese competitive e posti di lavoro di qualità». Così l’Unione europea terrebbe la barra dritta sul Green deal. La vicepresidente per una Transizione pulita, giusta e competitiva Teresa Ribera, la figura che dovrebbe garantire l’impegno verde dell’esecutivo Ue, a proposito del patto per l’industria pulita, ha affermato: «L’Europa porta una chiara argomentazione economica a favore della decarbonizzazione, presentata come motore di prosperità, crescita e resilienza. Il nostro piano offre agli investitori la stabilità e la fiducia di cui hanno bisogno: lo fa sbloccando capitali, espandendo i mercati delle tecnologie pulite, rendendo l’energia più accessibile e garantendo un contesto equo e competitivo in cui le imprese possano prosperare».
Concessioni pericolose
Ma il pacchetto semplificazione getta ombre sulla strada tracciata verso la sostenibilità ambientale e sociale. Non solo, il patto, per le ong ambientaliste europee, nasconde concessioni pericolose all’industria petrolchimica. Non sarebbe un caso, per gli attivisti della rete internazionale #BreakFreeFromPlastic che il Clean industrial deal sia stato presentato in un evento a porte chiuse ad Anversa, in Belgio, organizzato tra l’altro dal Consiglio europeo delle industrie chimiche – Cefic.
«L’adozione del Clean Industrial Deal rappresenta un’opportunità da non sprecare per mettere in campo un’ambiziosa politica industriale, in grado di accelerare una giusta transizione verso la neutralità climatica e favorire la competitività dell’economia e delle imprese europee», afferma Andrea Minutolo, responsabile scientifico di Legambiente. «La condizione, però, è che non si ceda alle sirene della deregulation. Infatti, preoccupa la grande enfasi della Commissione sulla necessità di rafforzare la competitività attraverso la semplificazione legislativa. Senza dubbio la semplificazione delle procedure può migliorare l’efficacia di direttive e regolamenti. Ma vi è il grande rischio di una deregulation ambientale e sociale se si cede alle continue e crescenti pressioni della componente più miope e conservatrice dell’industria europea».
Minutolo sottolinea che i danni sono anche economici: «Il World Economic Forum stima che con 1 dollaro investito oggi nell’adattamento ai cambiamenti climatici si può far risparmiare tra 2 e 10 dollari in costi futuri. Secondo l’Agenzia europea dell’ambiente, l’inquinamento atmosferico dovuto ai grandi impianti industriali, tra il 2012 e il 2021, ha avuto un costo tra 2.700 e 4.300 miliardi di euro».
Deregulation a vantaggio della chimica
Si legge nel comunicato stampa della Commissione Ue che la deregulation consentirà, tra l’altro, «di semplificare i criteri che prevedono di non arrecare un danno significativo (do no significant harm – dnsh) più complessi per la prevenzione e la riduzione dell’inquinamento in relazione all’uso e alla presenza di sostanze chimiche, in particolare quelli che si applicano orizzontalmente a tutti i settori economici nell’ambito della tassonomia dell’Ue». Non è chiaro se il passaggio si riferisca anche ai Pfas, sostanze per- e polifluoroalchiliche ampiamente utilizzate nell’industria, inquinanti emergenti dannosi per la salute, menzionati anche nel rapporto Draghi.
«I costi dovuti all’uso di prodotti chimici pericolosi come i Pfas sono preoccupanti. In Europa, secondo il Nordic Council of Ministers, infatti, quelli sanitari diretti, derivanti dall’esposizione a queste sostanze, ammontano a 52-84 miliardi di euro l’anno. A cui si aggiungono i costi sociali che raggiungono la cifra astronomica di 17.500 miliardi di euro», commenta ancora Minutolo. «Le giuste restrizioni da parte delle attuali norme europee sono fortemente contestate dalla potente lobby chimica, nonostante molte imprese del settore abbiano già investito in prodotti senza Pfas, con ottimi risultati sia economici che ambientali. Il Clean industrial deal non deve alimentare un modello industriale insostenibile, che esternalizza sulla società i grandissimi costi del suo inquinamento».
Anversa, foto di Nicolas HIPPERT su Unsplash
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