Donne che fanno la differenza
Marta Sachy, ascoltare cambia chi ascolta
È un’antropologa italo-mozambicana, dirige la Fondazione Aurora e ha una missione: cambiare la narrativa sull’Africa. «Puntiamo su imprese africane giovani, facendogli fare uno scale up e accompagnandole perché portino valore aggiunto a tutta la comunità»
di Anna Spena

Marta Sachy, 43 anni, è molte cose insieme. Una donna italo-mozambicana, un’esperta nel campo dello sviluppo internazionale con una laurea in antropologia sociale e studi sullo sviluppo ottenuta presso l’Università di Sussex e un master in sanità pubblica conseguito presso la Fiocruz a Rio de Janeiro. È la madre di un bambino. Ha un passato da operatrice umanitaria (ma di esserlo non si smette mai) durato fino al 2016, anno in cui è rientrata in Italia per lavorare come consulente per il ministero degli Affari Esteri, nel dipartimento Africa. Dal 2018 ricopre il ruolo di direttrice della Fondazione Aurora, un’organizzazione italiana che si dedica alla promozione dell’occupazione attraverso il potenziamento di imprese africane a impatto sociale. Ma soprattutto Sachy ha una missione: cambiare la narrativa sull’Africa.
È giovane. Ha viaggiato moltissimo ed è impegnata nella promozione di una narrativa alternativa sull’Africa, nell’advocacy per l’equità sociale e nella costruzione di un futuro sostenibile. Quanto le sue scelte di vita professionale si legano alla sua storia personale?
Sono italo-africana. Italo-mozambicana per la precisione. Mio padre è comasco. Sono cresciuta sul lago di Como a cavallo tra gli anni Ottanta e Novanta. Erano gli anni della nascita del partito leghista, quelli in cui si facevano largo le narrazioni stereotipate sui migranti, non solo su quelli africani. Io ero un’adolescente e credo che queste cose abbiamo inciso sulle mie scelte professionali. Ho sentito, fin da subito, il bisogno di contribuire a cambiare la narrativa di determinati gruppi marginalizzati.
Lei ha studiato antropologia.
Sono un connubio tra una mamma mozambicana e un padre comasco di origini francesi. L’incontro con culture diverse e l’apertura alla globalità erano inevitabili (sorride, ndr). Per me l’altro non è solo un oggetto di studio, il mio approccio all’antropologia è partecipativo. Ascoltare cambia chi ascolta. Mettersi nei panni dell’altro, nella sua nerezza come afrodiscendente, come donna, riesce a decodificare quello che è lo spirito del lavoro nella cooperazione: contribuire a risolvere i problemi ma tenendo sempre l’altro presente, al centro.
Che legame ha con la sua parte mozambicana?
La guerra civile del Paese ha contrassegnato la mia infanzia. E già da piccola sapevo che tra me e i miei cugini mozambicani l’unica differenza era la pura casualità: io sono nata nella ridente Lombardia e loro in mezzo a un conflitto.
Come ha iniziato la sua carriera nella cooperazione internazionale?
Ho studiato antropologia sociale e development studies all’Università del Sussex; c’era un programma di volontariato delle Nazioni Unite (Unv) a Salvador de Bahia, la città più nera fuori dall’Africa. Mi sono trovata davanti persone schiavizzate e una grande ingiustizia sociale. Lavoravo nelle favelas sui temi della violenza di genere. Sono stata là per qualche tempo, ma poi ho sentito un forte desiderio di tornare alle radici, così ho deciso di andare in Mozambico.

Cosa ha fatto?
Era il 2010. Sono partita con il consorzio associazioni con il Mozambico, il braccio operativo della provincia autonoma di Trento. Ho cominciato a lavorare in un distretto rurale e ad occuparmi di salute. Cultura, genere e salute vanno di pari passo per me. Mi sono concentrata in modo particolare sulla salute materno-infantile e su quella delle madri sieropositive. Di Aids si muore, ma con l’Aids si vive anche. Ci sono tutti dei meccanismi per il superamento dello stigma rispetto alla malattia, per affrontare l’allattamento. Poi per due anni ho lavorato con i bambini tubercolotici, sieropositivi, malnutriti, affetti da malattie croniche e nel 2016 sono tornata in Brasile.
Perchè?
Per fare un master of philosophy in salute pubblica. Era l’epoca in cui per la prima volta era salito al potere Lula, il tempo della cooperazione Sud-Sud, più orizzontale e meno top-down.
E poi?
Poi sono tornata in Italia, dove ho lavorato per due anni al ministero degli Esteri. Fino a quando mi è stato proposto di dirigere Fondazione Aurora. Già nel documento programmatico ho potuto far confluire le mie idee su quello che funziona e quello che non funziona della cooperazione internazionale. C’era tantissima volontà da parte dei fondatori di mettere in piedi un progetto che potesse essere utile alla creazione di posti di lavoro in Africa partendo dall’imprenditorialità ad impatto, quindi da quello che funziona. Ci sono tantissimi giovani talentuosi, pieni di competenze che non vogliono lasciare i loro Paesi d’origine. Hanno tutte le carte in regola ma gli manca un supporto. Con la Fondazione puntiamo quindi su imprese giovani, facendogli fare uno scale up e accompagnandole in modo che possano accedere a dei fondi per ampliarsi, portando un valore aggiunto a tutta la comunità. Dobbiamo anche iniziare a cambiare i termini. Provocatoriamente, non dobbiamo aiutarli né a casa nostra né a casa loro. Bisogna smetterla con la dialettica pietista: non andiamo a salvare nessuno, ma a sostenere e a far crescere ciò che già c’è di positivo, cambiando ottica: dal saccheggio agli investimenti costruttivi, in un clima paritario e di partnership orizzontale.
Lavorate anche con imprenditrici africane?
Sempre di più. Se penso alla situazione delle donne in Africa rispetto a quella in Occidente vedo molte differenze. Le donne in Africa hanno sempre fatto parte del tessuto commerciale, hanno una rappresentanza politica più forte della nostra e un potere decisionale invidiabile, genuino. Mentre qui si parla di materie stem, là ci sono già molte donne che ricoprono ruoli apicali in questi settori.
Secondo lei la leadership femminile ha delle caratteristiche specifiche nel Terzo settore?
Credo che non si possa generalizzare, tutto dipende molto dalla sensibilità di una persona, a prescindere che sia uomo o donna. Certo è che in base al nostro vissuto riusciamo ad essere più empatici o meno su certe questioni, e questo è un valore aggiunto. Forse una donna è più propensa a condividere, vede le cose da un prisma diverso.
Credit foto Margherita Dametti
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