Leggere Dante a Tor Bella Monaca di Emiliano Sbaraglia (Edizioni e/o) è «la storia di un professore di una di quelle scuole definite “difficili” di una periferia “difficile”», scrive Marco Cassini, che l’ha proposto per il Premio Strega 2025. «Con questo libro volevo raccontare anche un’altra Tor Bella Monaca», dice lui.
Sbaraglia, come nasce l’idea di questo libro?
Durante il periodo del Covid. Poi ho iniziato a prendere degli appunti nella scuola secondaria di primo grado nella quale insegnavo. Quando sono andato via da quell’istituto, ho deciso che era arrivato il momento. È stata una lunga riflessione e scrittura, durata cinque anni. Dopo questa gestazione, per concluderlo, mi sono dovuto allontanare. Non che sia andato via dalla scuola per questo motivo, i motivi sono altri, come anche nel libro si racconta.
Sì, nel libro lo racconta: «Ormai da un po’ continua a ronzare nella testa la percezione che sia arrivato il momento di lasciare il proprio posto a qualcun altro, qualcuno che dentro la sua, di testa, non abbia niente di tutto questo e porti energie fresche». Lei insegna sempre?
Sì, in una scuola di Frascati.
Leggere Dante a Tor Bella Monaca è stato proposto al Premio Strega da Marco Cassini. Come ha preso questa notizia?
È per me una grande soddisfazione, non lo nascondo. Lo sento come un riconoscimento. Cassini mi ha detto di aver apprezzato non solo il contenuto, ma anche il modo in cui è stato scritto. Però non mi faccio illusioni: per me va già bene così.
«Lontano dalla retorica sul senso di “missione” o “vocazione”, il docente-protagonista si definisce semplicemente un “dipendente pubblico”, che con pazienza e inventiva riesce pian piano a conquistarsi la fiducia di una classe che altrimenti sarebbe molto probabilmente destinata all’abbandono scolastico», scrive Cassini nella motivazione.
Ho cercato, nel libro, di approfondire un paio di temi che mi stavano particolarmente al cuore nel momento in cui ho deciso di scriverlo. Io ho insegnato 11 anni in quella scuola, dove ogni tanto torno: non ho perso i contatti, soprattutto con il territorio. Il primo, se dovevo scrivere di Tor Bella Monaca, anche se il mio racconto è in una scuola, volevo cercare di uscire un po’ dalla retorica della cronaca nera. Con questo libro volevo raccontare anche un’altra Tor Bella Monaca, che esiste, fatta di famiglie che vengono a chiedere un sostegno rispetto al modo in cui i ragazzi possono stare in classe, fatta di gente che lavora e che vorrebbe lavorare in una maniera migliore. Poi ho cercato di sottolineare anche un fatto al quale tengo molto: la storia dell’insegnante “missionario” deve finire.

Ci spieghi meglio.
Siamo degli insegnanti, io dico nel libro dei “dipendenti pubblici”, io mi sento questo, soprattutto in questi ultimi anni, dopo aver maturato un po’ di esperienza: finora ho fatto 24 anni di insegnamento, 12 da supplente e 12 da insegnante di ruolo. Non è questione di fare i “missionari”, di andare a fare una missione, di sacrificare il proprio ruolo di insegnante in determinate scuole. Si tratta di andare in contesti territoriali un po’ più complicati, di cercare di comprendere che cosa serve, come bisogna lavorare. E lavorarci. La logica della missione non fa bene a nessuno, non fa bene al mondo degli insegnanti per come vengono visti e non fa bene a quelle scuole dove vai a lavorare. Deve essere una scuola come tutte le altre, poi non lo è, però bisogna lavorare con questa prospettiva.
La logica della missione non fa bene a nessuno, né agli insegnanti né alle scuole. Non siamo missionari, siamo dipendenti pubblici
Quanto è complicato essere, come dice nel suo libro, dei “PPP”, dei professori professionisti passionali?
È complicato, ci devi mettere tanto nell’arco della tua giornata, perché poi quando esci da lì non se ne vanno i pensieri, restano se sei passionale. Io un po’ mi stavo giocando anche la salute, è stato il medico che, ad un certo punto, mi ha chiesto se non era il caso di trovare un’altra scuola. Ma se senti che stai cercando di fare qualcosa di utile, è anche uno stimolo per continuare a farlo tutti i giorni. Lì la sensazione di essere utile a qualcuno c’è, per me c’è in tutte le scuole e c’è sempre stata. Però in scuole come quelle, c’è di più.
Quanto è difficile cercare di scardinare la disillusione dei ragazzi di cui parla? Penso, ad esempio, a Fabiano, di cui scrive che «è quasi annoiato, lontano, disilluso. Una disillusione rinforzata dalla convinzione che niente cambierà nella strada dove vive, lasciando il sapore inconfondibile di una sconfitta annunciata, collettiva, confezionata e servita dal circolo degli adulti del ancora non fa parte, ma di cui è costretto a pagare gli errori».
Scardinare la disillusione di questi ragazzi è quasi impossibile, anche se loro spesso non dicono che stai riuscendo a far coltivare loro un dubbio rispetto a questo… Ma se si studia in un determinato modo, se si cambia un po’ la propria quotidianità, qualcosa può cambiare. È certo che loro guardano la statistica: vedono che non cambia quasi mai niente per nessuno, di chi è nato in quei luoghi lì, e quindi dicono: «Come mai dovrebbe cambiare proprio per me?» Ma starci tutti i giorni e far vedere che tu ci credi, è importante per loro, lo posso testimoniare.
Non mi sono voluto arrendere alla logica della “vigilanza”, al fatto che in certe scuole l’aspettativa è solo arrivare alle 14 con meno danni possibile
Perché la scelta di Dante, con cui «proviamo a uscire dall’Inferno, per inseguire il Paradiso»?
Dante è stato un po’ un caso. In determinati contesti scolastici, secondo il mio punto di vista, per l’esperienza che ho maturato, bisogna procedere per tentativi. Non è che Dante, nei dieci anni che sono stato lì, abbia sempre funzionato. Il libro è anche una raccolta di un’esperienza vissuta nell’arco di un decennio. Però non mi sono voluto neanche arrendere alla “logica della vigilanza”, chiamiamola così.
A cosa si riferisce?
Al fatto che in determinati luoghi, in determinate scuole, si entra alle otto cercando di arrivare alle ore 14 con meno danni possibili. Però rinunciare a priori a un certo tipo di didattica è una cosa alla quale io, dopo qualche anno, non mi sono voluto arrendere. Mi sono detto: «Ma perché non provare a fare qualcosa di più rispetto a leggere, scrivere e far di conto, che lì serve come il pane? Proviamo a ragionare su delle cose». Poi c’è a chi piace di più, a chi piace di meno. Ci sono stati degli anni in cui le cose sono andate nel verso giusto: volevo raccontare il padre della lingua italiana che i ragazzi lì, secondo me, era giusto che avessero il diritto di conoscere.
«Dante ci salverà? La scrittura ci salverà? E la letteratura, la poesia? Chi può dirlo. Quello che purtroppo è quasi certo è che non potranno salvare Marvin». Da insegnante quanto è difficile da accettare il fatto che i vari Marvin che incontra non potranno essere salvati?
Molto, perché io posso fare ben poco. È giusto che provi a fare tutto quello che è possibile e che sento che si può fare, nelle mie forze e nella mia mente. Però non è che si possa fare molto, se non c’è un lavoro più ampio di carattere anche istituzionale. Io dico soprattutto per quanto riguarda la possibilità di avere un certo tipo di strutture, di attenzione, cosa che quella scuola negli ultimi anni è riuscita ad avere. Infatti, è molto migliorata, anche da quando c’è stata una fondazione che ha voluto investire. Si deve lavorare soprattutto sulla manutenzione delle scuole. Questo già aiuta, anche il luogo in cui questi ragazzi e queste ragazze stanno è importante. Un conto è stare in un’aula fatiscente, un conto è stare in un luogo dove sei ben accolto, quando entri. È molto diverso.
Scardinare la disillusione di questi ragazzi è quasi impossibile. Ma se si studia in un determinato modo, se si cambia un po’ la propria quotidianità, qualcosa può cambiare
Lei scrive: «Il nostro compito, il nostro dovere di dipendenti pubblici, è quello di trasformare la diversità in ricchezza, in valore aggiunto, in una reciproca opportunità». A lei cosa hanno dato tutti questi anni di insegnamento?
A me hanno dato tantissimo, ma lo dico senza retorica. Io negli 11 anni che sono stato in questa scuola ho sicuramente più ricevuto che dato. Al netto di tutto quello che ho fatto, di quello che ho provato a fare, delle arrabbiature, dei ricoveri in ospedale per stato di ipertensione, dello stare lì molte più ore di quelle da contratto, di fare attività pomeridiane. Ho cercato di fare il mio lavoro: non ho fatto niente di speciale.
Però ho ricevuto tanto, dagli studenti e dalle loro famiglie, perché sentono empaticamente che tu stai cercando di fare qualcosa per loro. È solo quello: neanche lo razionalizzano, lo sentono. Nel momento in cui lo sentono è come se entrassi nella loro comunità. Mi ha insegnato tanto perché questi sono ragazzi costretti dalla vita ad essere molto svegli, si impara molto da loro. E io, dopo aver capito dov’ero, mi sono messo anche in questa posizione: non ero il professore che, da dietro la cattedra, voleva spiegare loro come funziona la vita. Al contrario, erano loro che mi spiegavano un po’ come funziona la vita.
Lei è rimasto in contatto con qualcuno di questi ragazzi?
Sì, sono rimasto in contatto con qualcuno di loro. Per esempio, ho molto piacere che una ragazza, Giovanna, adesso sta terminando il liceo. C’era una sua predisposizione però non era scontato. Un triennio insieme di italiano, storia e geografia penso che abbia fatto la sua parte. Ogni tanto alcuni ragazzi mi chiamano per un calciotto se manca uno e, quando posso, vado. Ma loro diventano sempre più grossi e io sempre più vecchio…
Foto ufficio stampa Edizioni e/o
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