Mondo
Avevo 16 anni. E il male prese la mia vita
Emmanuel Nokrach racconta la sua terrificante storia. Nel 1998 venne catturato dalle milizie di Joseph Kony. E addestrato al massacro. Qui racconta come è uscito dallincubo.
Il suo nome è Emmanuel. E di cognome fa Nokrach. Che in lingua acholi, popolo del Nord Uganda a cui appartiene, significa «una cosa da poco». Un?ironia della sorte alquanto crudele se si pensa che nel fiore della sua adoloscenza, Emmanuel, prima rapito e poi seviziato, è stato costretto a prestare i suoi servizi per due anni a uno dei gruppi ribelli più sanguinosi del continente africano, l?Esercito di Resistenza del Signore.
Capeggiato da Joseph Kony, l?Lra è protagonista dal 1987 di una guerra civile, contro il regime del presidente ugandese Museveni, per imporre una teocrazia fondata sui Dieci comandamenti. Ma le vittime, così come i carnefici, sono in maggioranza civili, in stragrande maggioranza bambini.
Come Emmanuel, che a Vita ha raccontato le proprie vicissitudini nel corso di un incontro (quasi) informale dal quale emerge la storia di un ragazzo «destinato a fare uso della violenza come strumento di sopravvivenza», ma che grazie all?appoggio di qualche amico (segno di un tessuto non totalmente lacerato) e di un?organizzazione non governativa italiana (l?Avsi, Associazione volontari per il servizio internazionale), ha ripreso possesso del proprio destino.
Nonostante i traumi del passato, le paure di un futuro incerto e una fragilità vissuta nel quotidiano.
Vita: Come sei entrato a far parte dell?Lra?
Emmanuel: Risale al 1998. Ero nei pressi di Gulu, la mia città natale. Mentre tornavo dalla scuola, il veicolo sul quale viaggiavo ha avuto un incidente lungo il fiume Aswa. Tra i viaggiatori, ero l?unico studente. Poco dopo esserci fermati, alcuni ragazzi armati sono spuntati fuori dal nulla. Ci siamo subito arresi. Dopo avermi portato via, uno di loro mi ha detto: «Guarda che oggi morirai». Ero talmente terrorizzato che non ho fatto altro che rispondere «Sì». Poi per tre giorni, mi hanno portato a Nord, oltre la frontiera con il Sudan, senza darmi nulla da mangiare. è stata durissima.
Vita: Che altre forme di violenze hai subito?
Emmanuel: Dopo pochi giorni, mi hanno messo nelle mani di un comandante che, davanti a un gruppo di adolescenti, mi ha forzato a uccidere un ragazzo. All?inizio mi sono rifiutato, ma dopo avermi pestato a sangue obbligandomi a ?distruggerlo?, ho preso un bastone chiodato, pronto ad ammazzare. Ma qualcuno mi ha fermato dicendomi che non ero in grado di uccidere. Per ore, mi hanno torturato giurandomi una morte assicurata. Solo l?intervento di un altro comandante mi ha salvato. Così, sono diventato il cuoco di una cinquantina di soldati.
Vita: Che ricordi hai della guerra?
Emmanuel: La violenza inaudita. Devi credermi, ne ho visto di persone, anche bambini, farsi massacrare dai ribelli. Si uccideva senza un motivo chiaro, in modo cruento. I ribelli non ti uccidono subito. Ti fanno soffrire, tagliandoti le membra del corpo, schiacciandoti gli occhi con una pietra oppure rompendoti le gambe.
Vita: Come sei riuscito a scappare?
Emmanuel: Così come sono stato catturato, in modo improvviso. Nel 2000, durante alcuni attacchi ad Atia, ho approfittato della confusione per scappare e tornare a casa. A salvarmi è stato il mio inglese. «Di sicuro», si saranno detti, «un ribelle non può parlare così. Abbiamo a che fare con uno studente in fuga». Da lì, sono tornato a casa.
Vita: Che realtà hai trovato?
Emmanuel: I miei genitori erano morti. Ad accogliermi è stato uno zio che, nonostante la sua bontà, non ha potuto nulla contro sua moglie e la gente del villaggio, tutti molto ostili nei miei confronti. Ho capito che era meglio andare via. Ero persino pronto a tornare tra i ribelli. «Ovunque andrò», ripetevo a me stesso, «distruggerò».
Vita: Come sei uscito da questa logica?
Emmanuel: A Gulu, ho incontrato per caso un mio vecchio compagno di scuola, Benjamin. Eravamo felicissimi di rivederci, anche se lui è rimasto attonito dal mio strano comportamento e dai luridi vestiti che indossavo. Dopo avergli confessato la mia storia, ha deciso di portarmi a casa sua e prendermi totalmente in carico. Ma dopo sei mesi, i suoi genitori hanno deciso di mandarmi via. Ero diventato ingombrante. Incredibilmente, Benjamin ha voluto starmi a fianco. E così siamo andati a Kampala.
Vita: Perché Kampala?
Emmanuel: Guarda non lo so. Benjamin era convinto che nella capitale avremmo trovato una soluzione ai miei problemi. Non ho mai capito perché fosse così attaccato a me. La sua forza di volontà ci ha portato al compound dell?Avsi. E lì la mia vita ha preso un?altra piega.
Vita: In che modo?
Emmanuel: Con l?incontro con Lucia Castelli (coordinatrice del programma di recupero psicosociale degli ex bambini soldato a Kitgum, ndr). «Di che cosa hai bisogno?», mi chiese. «La scuola», risposi. Non è passata una settimana che mi sono ritrovato a Kitgum, pronto a riprendere gli studi con l?aiuto di Avsi. Eravamo nel giugno 2003.
Vita: Come si è svolto il tuo ritorno sui banchi di scuola?
Emmanuel: Al Kitgum Center College sono ripartito da dove mi ero fermato, ma con la mente svuotata da tutto quanto ero riuscito ad imparare negli anni precedenti la mia cattura. In classe, non riuscivo a concentrarmi nemmeno un secondo. Non pensavo che fosse così duro.
Vita: E il rapporto con i tuoi compagni di scuola?
Emmanuel: All?inizio non parlavo con nessuno. Pensavo solo a recuperare il tempo perso e lavorare duro. Volevo provare a chi mi ha dato una chance di dimostrare il mio valore. Poco a poco, ho preso confidenza con alcuni ragazzi, tra cui Willy, il primo con il quale ho condiviso un pranzo. Oggi, tutti mi conoscono.
Vita: Pensi che Kony vada ucciso?
Emmanuel: No, non credo. Almeno non lo voglio perché dopo tutto quello che ha fatto, Kony va processato, per la Storia, e poi ucciso. È necessario che gli ugandesi, il mondo intero capiscano la sua logica assassina. Ci deve raccontare perché ha sequestrato così tanti bambini e perché ha ucciso così ferocemente. Quest?uomo è il Male in persona. Tutto ruota attorno ai suoi spiriti malvagi.
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