Armando Punzo

La voce libera dei carcerati è arrivata fino a Mattarella

di Ilaria Dioguardi

Il drammaturgo e regista, fondatore e direttore della Compagnia della Fortezza di Volterra, ha ricevuto dal capo dello Stato Sergio Mattarella l'Onorificenza di Ufficiale dell’Ordine al Merito della Repubblica italiana. «È facile che le persone dicano, di me: “lui si è dedicato ai detenuti in carcere". No, io mi sono dedicato soprattutto a un'idea di libertà, a un'idea di potenza, della forza eventuale dell'arte. Di un'arte che esce dai luoghi canonici ed entra in dei luoghi non canonici»

Fondatore e direttore della Compagnia della Fortezza di Volterra, Armando Punzo, drammaturgo e regista, è appena stato insignito dell’Onorificenza di Ufficiale dell’Ordine al Merito della Repubblica italiana dal Presidente Sergio Mattarella. «Un giorno ho pensato che avrei potuto mettere alla prova l’arte, il teatro, a confronto con una realtà che io, in maniera ingenua, pensavo un luogo difficile, un luogo che non avesse niente a che vedere con l’arte, la cultura, la poesia, la bellezza». Da quel giorno sono passati 37 anni. La Compagnia della Fortezza nasce come progetto di laboratorio teatrale nella casa di reclusione di Volterra nell’agosto del 1988, a cura dell’associazione culturale Carte Blanche e con la direzione di Armando Punzo.

Partiamo dall’inizio. Come ha cominciato a fare teatro in carcere?

Una volta, per mettere un punto a questa mia storia, ho avuto bisogno di fare un libro dal titolo Un’idea più grande di me, scritto con Rossella Menna (Luca Sossella editore), dove ho ripercorso tutti questi anni e i motivi di questo lavoro. Scrivere questo libro è stato un momento importante, mi sono confrontato con me stesso, mi sono chiesto perché effettivamente io fossi entrato in un carcere. A distanza poi di tanti anni, mi sono fermato e ho dovuto riflettere su questa cosa. Non c’è niente da fare: il motivo è artistico. Per me era impensabile, 37 anni fa, pensare ai temi, che oggi si dicono, del “teatro sociale”, della “rieducazione”. Io ero un giovane artista che stava cercando la sua strada, il motivo per cui sono entrato all’interno del carcere era per risolvere una mia questione prettamente artistica. Sicuramente non sono andato lì per il carcere, non sono andato lì per i detenuti, per come si potrebbe intendere oggi. A una parte di persone non piace, questa idea.

Foto di Stefano Vaia

Perché?

Sembra troppo creativa, troppo particolare. A molti piace di più l’idea che ci sia una persona che è entrata in un posto, che è andata a dedicare la sua vita alle persone che hanno delle difficoltà, che vivono fragilità sociali e personali. Io capisco che c’è questo tipo di afflato, in questa direzione, però non è stato il mio motivo. E, secondo me, è stata la grande fortuna di questa esperienza, messa al riparo dalla retorica. E anche dalle buone intenzioni, che a volte non hanno uno sguardo reale sulle situazioni di cui si occupano. È facile che le persone dicano, di me: “Lui si è dedicato ai detenuti in carcere”. No, io mi sono dedicato soprattutto a un’idea di libertà, a un’idea di potenza, della forza eventuale dell’arte. Di un’arte che esce dai luoghi canonici ed entra in dei luoghi non canonici. In questo, non c’è niente di nuovo sotto il sole.

Ci spieghi meglio.

Io entro nel solco di una serie di artisti, di correnti, penso al neorealismo nel cinema, fondamentalmente, che è la cosa che più mi ha ispirato, mi ha dato da pensare. Se penso a Ladri di biciclette o altri film, con attori presi dalla strada, dove c’è un regista che usa degli attori non professionisti, in vista di un risultato artistico, non in vista di chi era in quel momento l’attore che lavorava con lui.

Come è entrato in carcere, la prima volta?

Il carcere mi ha affascinato 37 anni fa. Io venivo da letture che mi avevano avvicinato al teatro, come quelle di Gurdjieff, dove l’idea dell’uomo come prigioniero, in quanto essere non consapevole di se stesso, è qualcosa che mi aveva toccato molto e mi aveva fatto avvicinare al il teatro. Ero a Volterra, era finita un’esperienza importante con il Gruppo internazionale L’Avventura. Dovevo decidere cosa fare da grande. Ho visto il carcere per la prima volta, ho alzato gli occhi, non ci avevo mai pensato, non ne sapevo. Un giorno ho pensato che avrei potuto mettere alla prova l’arte, il teatro, a confronto con una realtà che io, in maniera ingenua, pensavo un luogo difficile, un luogo che non avesse niente a che vedere con l’arte, la cultura, la poesia, la bellezza: tutti questi termini che tante volte vengono utilizzati, sempre di più.

Foto di Stefano Vaia

Non volevo fare altro, non volevo tornare nei teatri, non volevo lavorare con gli attori professionisti. Avevo una serie di limiti che mi ero posto perché non mi interessava. Questo è il motivo per cui io sono entrato nel carcere. Poi tutto è diventato mille volte più interessante, più complesso, pieno di sfaccettature, di ricchezza, incredibili come esperienza. Infatti sono ancora lì dopo 37 anni.

Perché tutto «è diventato mille volte più interessante»?

Non conoscevo la realtà all’interno del carcere. Per prima cosa, ho scoperto una comunità intera di napoletani, io sono napoletano. Ho conosciuto delle persone con delle difficoltà sociali e ho cominciato a capire che, in un carcere, ci sono persone che hanno sicuramente compiuto azioni e atti, ma dietro questo c’è anche una questione sociale importante. Molte persone sono quasi a un livello di analfabetismo, vengono da livelli veramente poveri, socialmente e culturalmente. Poi scoprii che non c’era solo Napoli, non c’era solo la Calabria, non c’era solo Roma, non c’era solo la Sicilia. Il Nord c’era pochissimo. E c’era anche il Sud del mondo. Mi sono reso conto che nel carcere c’era tutto il Sud del mondo. E questo mi raccontava tanto. Cominciò ad essere interessante il fatto di parlare di teatro, della libertà dell’attore, di lavorare su delle improvvisazioni stando dentro una cella, che è fatta per costringere le persone. Era inevitabile ragionare su una questione.

Quale?

Eravamo uno spazio di libertà o uno spazio di costrizione? Questo luogo fisico, architettonico che ci conteneva era in quel momento uno spazio di libertà massima (quello che è quando si fa teatro) o il massimo di reclusione? Questa contraddizione l’ho trovata estremamente straordinaria, Tutto devo dire a favore soprattutto dell’arte e del teatro. Con il tempo mi sono reso conto che dava dei grandissimi risultati.

Un giorno ho pensato che avrei potuto mettere alla prova l’arte, il teatro, a confronto con una realtà che io, in maniera ingenua, pensavo un luogo difficile, un luogo che non avesse niente a che vedere con l’arte, la cultura, la poesia, la bellezza

Quali risultati?

Alla fine ho scoperto che il teatro si è arricchito, ha potuto scoprire attraverso me delle potenzialità enormi, che erano fatte proprio di questo rapporto strettissimo con una realtà che nega la tua esistenza, la tua possibilità. Faceva questo e ancora oggi è così. Il carcere nega il tuo dna, la tua esistenza, la tua filosofia, è fatto proprio all’opposto rispetto al teatro. Il rapporto tra questi due opposti è qualcosa di straordinario.

Quante persone che ha incontrato in carcere poi sono diventate veramente attori?

Pensare ai risultati è importante, un nome è quello di Aniello Arena, è diventato attore di cinema, aveva l’ergastolo, ormai da diversi anni ha finito di scontare la sua pena e vive del suo lavoro. Ma al di là dei risultati, mi colpisce quelli che sono stati tutti gli slanci vitali che ho visto nelle persone che hanno frequentato il teatro. Cioè, tutte le volte che delle persone sono emerse da se stesse, hanno avuto l’opportunità di tirarsi fuori dal luogo, dalla biografia, dalla storia, da quel momento, da quell’ora, da quel secondo, da quella che è veramente la loro vita, che fosse una vita di 30 anni, di 40 anni, di 20 anni. Di slanci vitali proiettati verso un futuro luminoso, straordinario, libero, meraviglioso ne ho visti tantissimi, e ancora io lavoro e vedo questo nelle persone: è quello che mi interessa perché è quello che il teatro deve fare. Il teatro deve creare opportunità non ai detenuti, ma agli attori, a noi come essere umani. Deve creare l’opportunità di avere degli slanci vitali, intesi come ciò che ci allontana da quello che è una quotidianità, dal nostro io più ordinario, che è la vera prigione per tutti quanti noi. Poi non tutti hanno l’opportunità di poter proseguire un cammino del genere. Questo è un fatto che dipende tante volte non da loro, ma dalla società fuori, dalle condizioni economiche e dalle diverse difficoltà. So che moltissime persone in questi anni hanno assaporato questa esperienza. Come l’hanno fatta e la fanno tantissimi attori che lavorano in tutto il mondo.

Foto di Stefano Vaia

Quante persone lei ha seguito in questi 37 anni?

Saranno un migliaio, io sono lì tutti i giorni. Il mio studio d’artista sta in un carcere, per me è normale stare lì sempre. Io sto lì anche quando non ci sono fisicamente: il mio posto è quello, il mio vero luogo è lì. Ci sto tutto il tempo che mi è possibile starci perché ho bisogno di quello, abbiamo bisogno di lavorare.

Cosa ha pensato quando le hanno detto che sarebbe stato premiato con l’Onorificenza di Ufficiale dell’Ordine al Merito della Repubblica Italiana?

La prima cosa che ho pensato è che il mio riconoscimento serve alle esperienze che sono fuori dal coro. L’esperienza della Compagnia della Fortezza è sicuramente fuori dal coro. Allo stesso tempo, mi ha colpito perché facilmente si pensa che quelle che sembrano delle esperienze di nicchia, che interessano solo a pochi, se fatte e condotte in profondità nel tempo, con ostinazione, con abnegazione, con passione, con intensità, arrivano agli altri. Io mi sono sentito molto onorato, soprattutto dal presidente Mattarella, che reputo una persona di grande equilibrio, una brava e ottima persona: questo comunica, standogli anche per pochi minuti vicino. Il fatto che sia stata notata questa esperienza crea una speranza. Secondo me è un indicatore per tutte le voci fuori dal coro che alla fine, alla lunga, il proprio lavoro viene riconosciuto anche dallo Stato, dalle cariche più ufficiali. Questo è un aiuto e, secondo me, è un ottimo e straordinario risultato.

Nelle carceri ci sarebbe molto bisogno di attività come il teatro, ma non sempre è possibile che vengano realizzate.

Sarebbe falso dire che non ci sono attività nelle carceri, secondo me bisogna prenderla da un altro punto di vista: bisogna vedere quanto le attività vengano messe nelle condizioni di dare il meglio dei risultati che potrebbero dare, quanto le istituzioni ci credano davvero e mettano nelle condizioni di operare al meglio. Questo forse è un problema, ci sono dei grandi limiti, un bel po’ di attività sono fatte all’esterno dell’istituto di pena. Il teatro, per la nostra esperienza, è stato un apripista. Il carcere di Volterra rimane all’avanguardia anche per altre attività che sono arrivate dopo. Il teatro ha “aperto”, non si è fermato a se stesso, ha aperto la strada a molti altri attività all’interno del carcere. C’è un progetto che noi sviluppiamo, che era anche menzionato nell’Onorificenza che mi è stata conferita dal capo dello Stato Mattarella.

Foto di Stefano Vaia

Quale progetto?

Per Aspera ad Astra, progetto di rete promosso da Acri e sostenuto da 12 fondazioni di origine bancaria in corso oggi in 16 carceri italiane, dal Nord al Sud Italia, che realizza percorsi di formazione professionale nei mestieri del teatro. Nato come progetto pilota, adesso siamo all’ottava edizione. È un modo e un’indicazione di come si dovrebbe operare, che la Compagnia della Fortezza ha sempre praticato e che stiamo esportando come una modalità che può, se ci sono le condizioni, dare straordinari risultati, su tutti i fronti.

Il Presidente Sergio Mattarella consegna l’onorificenza di Ufficiale dell’Ordine al merito della Repubblica Italiana conferita motu proprio a Armando Punzo
(foto di Francesco Ammendola – Ufficio per la Stampa e la Comunicazione della Presidenza della Repubblica)

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