Un barchino bianco con a bordo 59 persone e la luce di qualche cellulare nel buio pesto. In mare aperto, senza carburante. È l’immagine, oggi riconsegnata a un video sui Social, che l’equipaggio della Nihayet Garganey VI si è trovato di fronte nella notte tra lunedì e martedì. Da novembre scorso, la barca a vela solca il Mediterraneo con l’obiettivo di monitorare una delle frontiere marittime più letali al mondo. Nei suoi 17 metri e con un equipaggio di otto persone, offre supporto a chi si trova in difficoltà: in due missioni, ha salvato 82 vite (ne abbiamo scritto qui).
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È stata definita flotta civile, porta con sè tre bandiere: Arci nazionale, Sailing for Blue Lab e Sheep Italia. Rispettivamente: l’associazione di promozione sociale con oltre un milione di soci lungo lo stivale, un laboratorio navigante che ospita a bordo progetti di innovazione sociale e tutela dell’ambiente marino, e la onlus che dal 2019 opera nel campo dei diritti umani. Ecco la storia di come si sono trovate, insieme, sulle rotte del Mediterraneo.
La legge non scritta del mare
«Questa è un’idea nata da un gruppo di marinaie e marinai». Quando riesco a parlare con Maso Notarianni, è a bordo della Garganey VI alla fine di una settimana intensa, poche ore di sonno alle spalle e la prospettiva vicinissima del rientro a Trapani, lo stesso porto da cui la barca a vela era partita lunedì 17 febbraio. Presidente dell’Arci Milano e membro della presidenza nazionale, è stato il capo missione di entrambe le operazioni di monitoraggio messe in piedi dal progetto congiunto “Tutti gli occhi sul Mediterraneo”. «Il punto di partenza è uno soltanto», spiega: «in mare, se qualcuno è in difficoltà, bisogna soccorrerlo. Quanto sta accadendo oggi nel Mediterraneo centrale mette in discussione quella che per noi naviganti è la prima legge del mare. Non rispettarla, nel nostro modo di intendere il vivere insieme, è devastante: fa vacillare tutto ciò che è stato costruito sopra a queste fondamenta. Ci siamo chiesti cosa avremmo potuto fare. La risposta è stata: andiamo a vedere che cosa succede e poi raccontiamolo al mondo».
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Il primo circolo navigante
Per ricostruire questa storia, bisogna fare un passo indietro. Prima della rete, ci sono due associazioni che si muovono lungo il Mediterraneo realizzando attività di navigazione sociale con base a Bologna e Venezia: ricerca scientifica e tecnologica, innovazione sociale, esperienze rivolte a giovani provenienti da contesti di povertà educativa. «La scorsa estate si sono messe insieme per dare vita al primo circolo Arci navigante, il Sailing for Blue Lab», continua il capo missione. «Volevamo contribuire a rendere la realtà che ci circonda un po’ meno mostruosa, essere lì dove le cose accadono, non voltare la testa in un’altra direzione».
Porto a casa la soddisfazione di aver salvato vite umane. Ma per una barca che viene soccorsa ce ne sono innumerevoli altre che finiscono in un tragico naufragio
Maso Notarianni, capo missione delle prime due operazioni di monitoraggio
L’Arci nazionale ha sposato il progetto, una armatrice milanese ha messo a disposizione la sua barca a vela dopo aver letto le finalità dell’iniziativa e oggi c’è un alleato in più: Sheep Italia. «Siamo andati a vedere che cosa accade nel Mediterraneo centrale. Siamo gli occhi e le orecchie di chi è abituato a navigare e la voce che punta ad arrivare a tutta la società civile. Vorremmo costruire una consapevolezza e una risposta ampia e coordinata a questo gigantesco problema: ogni anno migliaia di persone attraversano il Mediterraneo in cerca di sicurezza e speranza, ma per molti quel viaggio finisce in tragedia. Quante più imbarcazioni sono in mare a monitorare e a chiamare il cosiddetto mayday relay, tante più vite saranno salvate».
Chi c’è a bordo
Due missioni due salvataggi, entrambi a poche ore dalla partenza. «Noi partiamo attrezzati, ma la nostra non è una ong, siamo pur sempre una barca a vela di 17 metri. A bordo abbiamo giubbotti di salvataggio e galleggianti, oltre all’occorrente per stabilizzare la situazione e assicurarci che non ci sia un naufragio. Il tutto in accordo con i centri di coordinamento marittimo e richiedendo istruzioni e assistenza alle autorità competenti», continua Notarianni. «In quest’ultima missione erano con noi anche una dottoressa e un’infermiera del Laboratorio di salute popolare dei Municipi sociali di Bologna, per garantire un’assistenza ancora più qualificata».
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Da chi altri è composto l’equipaggio? «Siamo tutti marinai: skipper, costruttori di barche, chi fa regate di professione. Prima di ogni partenza, organizziamo un training formativo». Intanto, dal lancio del progetto, sono arrivate tantissime richieste da parte di attivisti o semplici cittadini che vogliono rendersi utili: «Abbiamo bisogno di gente che ci dia una mano non soltanto in mare ma anche a terra. Penso alla logistica, alla raccolta di vestiti di ricambio per i naufraghi, serve sempre nuova linfa alla campagna di raccolta fondi su Produzioni dal Basso per mantenere operative le imbarcazioni e garantire beni di prima necessità per i soccorsi. Ma la cosa di cui abbiamo più bisogno è raccontare quello che facciamo».
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Che cosa può fare una barca a vela lungo la rotta del Mediterraneo? «Per rispondere a questa domanda cito un membro della guardia costiera che non più tardi di qualche giorno fa ci ha detto: siamo contenti che ci siate anche voi».
Resistenza e amore
L’approdo a Trapani è vicino. Che cosa si porta a casa Maso Notarianni? «La soddisfazione di aver salvato vite umane, questa volta erano 59, la prossima chissà. Eppure, il pensiero che insiste è un altro: per una barca che viene soccorsa ce ne sono innumerevoli altre che finiscono in un tragico naufragio». Resta la rabbia, aggiunge, «per i segni, negli occhi e nei corpi di quelle 59 persone, di un sistema sbagliato e feroce a cui le flotte civili di mare e di terra continueranno a opporre resistenza e amore».
Le fotografie sono di Francesco Cabras
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