Sanremo 2025

Una felicità a cui non mi posso abituare: la paternità secondo Brunori Sas

A Sanremo il cantautore porta la meraviglia e lo stupore della paternità, anche in «anni feroci» come quelli che stiamo vivendo: tra neve e miele, sangue e vino, vite che si spezzano, essere padre significa «navigare senza stella polare» ma resta «una felicità a cui non mi posso abituare». Il pedagogista Ivo Lizzola commenta il testo di Brunori Sas

di Veronica Rossi

Chitarra in mano, abiti sobri, sul palco di Sanremo Brunori Sas non colpisce certo per l’appariscenza. Ma colpisce con le sue parole, che arrivano dritte al cuore, soprattutto di chi ha figli. La sua canzone, infatti, racconta la paternità in un modo originale e profondo, andando a scavare tra paure, incertezze, speranze e gioie dei genitori. Tra i padri che si sono emozionati sentendo questo brano c’è anche il pedagogista sociale Ivo Lizzola. «Non seguo il Festival, ma questa canzone l’ho sentita», racconta. «Me l’ha mandata mia figlia, che vive a Bordeaux».

Che impressioni le ha suscitato questa canzone?

Mi ha colpito per la sua franchezza e sincerità. Si colloca abbastanza al di fuori della retorica classica su paternità e filialità e questo mi è piaciuto.

In che senso?

C’è un fondo di sincerità semplice. Per esempio, il primo spunto è la fatica del padre nell’accompagnare la vita a cui ha offerto un mondo che in questo momento vive «anni feroci». Tutti i giovani padri – anche le madri ovviamente – parlano di questa grande questione che sentono dentro: l’aver chiesto ai figli la fiducia di nascere in un mondo duro, in tempo di guerra, di violenza scatenata. Nella canzone questa sincerità, che è anche un’inquietudine fortissima, è ripresa con diverse immagini. Per esempio quando parla del «buio che arriva nel giorno che muore». Ci sono giorni che muoiono, buio che arriva, eppure la vita vale la pena e vale la pena attraversarla. E tutto questo il cantante lo scopre dalla figlia: mi è piaciuto molto.

Come mai?

Non è lui che insegnerà: i padri scoprono la loro fragilità, perché non hanno il potere di condurre in senso tradizionale, di rassicurare, di garantire la felicità. Possono accompagnare, riscoprire che si attraversano prove, sofferenze, anche ingiustizie. Ho apprezzato anche quando Brunori Sas fa dei passaggi avanti e indietro nel tempo. Dice che da piccolo ha colto «la differenza tra il sangue e il vino». Racconta di un’infanzia in cui le prove della durezza ci sono state e adesso, diventato padre, va a recuperare quello che la vita allora, quando era figlio, ha cominciato a sedimentare dentro di lui e che aveva un po’ dimenticato. La vita è dura, è sangue, ma è anche vino, è pane condiviso e violenza per conquistarlo.


«E tutta questa felicità forse la posso sostenere/Perché ha cambiato l’architettura e le proporzioni del mio cuore/ E posso navigare sotto una nuova stella polare». Un passaggio molto bello, che mostra quanto radicalmente la genitorialità possa cambiare una persona.

È una conclusione bellissima. In alcune culture – in passato anche nella nostra – la maternità e la paternità sancivano quasi una sorta di proprietà, un prolungamento di sé. Da tempo, invece, la paternità ha cambiato segno: è un’esperienza della fragilità, dell’impotenza a evitare le sofferenze e a garantire la felicità. E questo è un brivido. Però un figlio o una figlia ti trascinano a pensare al futuro, a prendere dei rischi, ti obbligano a ripensamenti profondi di ciò che vale e di ciò che vale molto meno. Apprendi pian piano che la paternità è un approfondimento della tua umanità, che il tuo cuore si dilata perché ospiti altra vita. Non solo quella dei figli e delle figlie come tuo prolungamento e proprietà, ma come altro tempo, altra attesa, altra occasione di responsabilità e di sensibilità. Addirittura, si inizia a delineare una «stella polare» che dà orientamento alle tue scelte, che diventeranno delle consegne e dei lasciti, non solo a tua figlia, ma ai coetanei di tua figlia e ai figli di tua figlia.

Diventare padri, quindi può dare un senso più profondo alla vita di una persona?

Certo. Non sei tu, uomo, che lasci il tuo segno nel monumento del tempo. Ti è nata una figlia che adesso ti attende, ti fa domande, ma allo stesso tempo segna subito la differenza da te, perché ha pensieri propri e fa le sue scelte. È da subito altro da te, si avvia su un cammino che non è il tuo. Fai l’esperienza della differenza radicale, devi rassegnarti ed essere capace di starle vicino comunque. Questo può insegnarci a fare la stessa cosa con tutte le differenze, tutte le diverse strade. Bisogna lasciar andare ed è bellissimo: i gesti diventano affidamenti, consegne, che poi sta ai figli interpretare. Questo gioco della libertà un po’ inquieta i padri e un po’ li lascia capaci di sorpresa.

Cioè?

Di fronte ai miei figli, a mia figlia che mi manda questa canzone, che è andata così lontana per i suoi studi, alla sua voglia di giustizia, di dare un senso al suo lavoro di ricerca sui diritti umani, sono sorpreso e sono ammirato. Così come lo sono con i miei studenti e le mie stendesse. Sono appena andato in pensione e l’ultima tesi che ho seguito è quella di una giovane donna che sta facendo una rilettura di Simone Weil a partire dalla sua esperienza professionale con le persone senza dimora. È un lavoro formidabile: io resto commosso davanti a questi cammini di vite giovani, di vite figlie che però segnano già il nuovo.

Il desiderio di genitorialità e i timori che lo accompagnano sono al centro del numero di VITA intitolato “Perché non vogliamo figli”: se sei già abbonato, grazie e clicca qui per leggere il magazine, se invece vuoi abbonarti puoi farlo da qui. In apertura foto di Marco Alpozzi/LaPresse

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