Volontariato

Bagdad, 1998: così parlava Margaret Hassan

«Sospetto che gli occidentali abbiano umanamente divorziato dagli iracheni»

di Gabriella Meroni

Margaret Hassan non alza la voce mentre parla, ma la sua indignazione si avverte tra le parole come fosse il grido, colmo di rabbia e frustrazione, di qualcuno che è stanco di sentire ovvietà. «Questo è un disastro provocato dall’uomo», dice. «Sì, qualcuno trae vantaggio da ciò che facciamo, ma non possiamo risolvere i problemi dell’Iraq. Qui non c’è economia. E gli aiuti umanitari non riescono a sostituire quel che non c’è». Come la sua assistente, Judy Morgan, di Dublino, la Hassan lavora per Care International, la più grande organizzazione umanitaria del mondo. E visto che sono loro a gestire l’ufficio di Care a Bagdad, asistono – ogni settimana, ogni giorno, ogni ora – a una tragedia umana su vasta scala, a un disastro che non riescono quasi per niente ad alleviare. Sono state loro a distribuire le medicine donate dai lettori di The Independent ai bambini degli ospedali di Bagdad. (…) Due donne toste. Tanto che non sorprende che dicano pane al pane e vino al vino. Detto senza eufemismi, le due operatrici di Care sono convinte di essere la proverbiale, inutile goccia nel mare, soprattutto quando tentano di far capire alle coscienze – alle coscienze occidentali – che gli iracheni muoiono a causa delle sanzioni nostre e delle Nazioni Unite. La signora Hassan, nata a Londra, ha un intero archivio di esempi che provano che sta dicendo la verità. «Che utilità abbiamo, qui? Se fossimo in una nazione del Terzo mondo, porteremmo qualche pompa per l’acqua con poche centinaia di sterline e potremmo salvare migliaia di vite. Ma l’Iraq non era Terzo mondo prima della guerra del 1991, e non è facile trasformare un paese evoluto in uno che ha bisogno di aiuto». Le pagine dell’archivio si rincorrono sul volto di Margaret Hassan. «Una maestra elementare qui guadagna 3000 dinari, cioè due sterline. Una volta in Iraq, nonostante tutti i problemi, i vestiti costavano poco, il cibo pure, i trasporti pubblici erano abbordabili. Ora in certi villaggi i genitori non possono più permettersi di portare in autobus un bambino malato di cancro al più vicino ospedale. La gente sta male, molto male. Sapete cosa significa per una madre qui svegliarsi la mattina e non sapere se potrà dar da mangiare al suo bambino?». Sia Margaret che Judy hanno sposato degli iracheni. Le regole di Care impediscono loro di parlare di politica. Quindi ci sono determinati argomenti – il presidente Saddam Hussein, l’invasione del Kuwait, i diritti umani in Iraq – che non entrano nei loro discorsi. Ma dicono le stesse cose che sostengono tutti gli operatori umanitari, compresi quelli dell’Onu: le sanzioni che avrebbero dovuto colpire il governo colpiscono in realtà i civili. Margaret Hassan sospetta che gli occidentali abbiano «umanamente divorziato dagli iracheni». «Non credo che riusciamo a vederli come persone», dice. «Altrimenti dovremmo reagire, se avessimo ancora un briciolo di umanità. Le sanzioni sono disumane e il nostro lavoro non può in nessun modo mitigare questa disumanità. Sono contrarie alla carta delle Nazioni Unite, che mette in luce i diritti degli individui. È una contraddizione, un’ipocrisia, qualcosa da Dr. Jekyll e Mr Hyde. Le sanzioni Onu contravvengono i diritti individuali sanciti dall’Onu stessa. Chiunque consideri la questione obiettivamente deve arrivare a questa conclusione». Da un articolo dell’Independent uscito il 2 novembre 1998 – di Robert Fisk da Bagdad


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