Cultura

Shakespeare forever

Harold Bloom. L'atteso libro del grande critico. Come far leggere ai giovani l'autore di Amleto

di Walter Mariotti

Dopo una vita passata a studiarlo e celebrarlo in un delirio gnostico al di là del bene e del male, l’inevitabile si materializza. In Shakespeare, l’invenzione dell’uomo (Rizzoli, L. 39.000), biografia intellettuale del genio anglosassone scritta da un anglosassone altrettanto geniale, Harold Bloom. Forse il più grande critico shakespeariano vivente. L’ombra del libro è l’assenza dei picchi di tragicità, l’analisi della ctonicità di Amleto e Coriolano, Enrico IV e Otello. C’è tutta la commedia umana però, l’infinita teoria di uomini e donne, giovani e vecchi, furbi e stolti vittime dell’invecchiamento inesorabile e della morte di fronte a un destino terribile o beffardo. Una decomposizione dovuta più alla trasformazione del loro rapporto con se stessi, però, che a quello con gli dei o con Dio. In questo sguardo di appassionante compassione, in questo quadrato magico di disfida intellettuale e carnale, di pietas per il repellente e l’aulico dell’humanitas, si gioca tutto lo sforzo di Bloom. Che d’altronde è esplicito, fin dalle prime pagine. «Più leggiamo e riflettiamo sulle opere teatrali di Shakespeare, più ci rendiamo conto che l’atteggiamento giusto da assumere nei loro confronti è quello della soggezione». Nella sua ammirazione timorosa e feticistica, infatti, Bloom ammette di non sapere come il bardo possa aver ottenuto un simile risultato. E sebbene riconosca di essere il pontefice massimo di una sorta di religione, della «bardolatria» che ha al centro la venerazione di Shakespeare, non riesce a sottrarsi. Non ce la fa a sfuggire alla tentazione dall’eresia, sostenendo al contrario che dovrebbe essere praticata «più di quanto già non lo sia». Ma è la grandezza di Shakespeare per Bloom ad essere la chiave di tutto. I suoi drammi, scrive, «continuano a rappresentare il limite estremo del trionfo umano: dal punto di vista estetico, cognitivo e per certi aspetti morale, spirituale». Shakespeare supera i confini della mente, insomma, e non possiamo stargli dietro. Perché in realtà è lui che ci ha inventati ed è quindi solo lui che potrà continuare a spiegarci. «Amleto siamo noi», dunque, come scrisse uno dei critici predecessori di Bloom, William Hazlitt. Noi poveri umani costretti a morte come Giulio Cesare e Cleopatra, Iago e Cressida. Noi, come il fool della Dodicesima notte, l’integerrimo Mercuzio o chiunque non abbia principi morali. Ma anche noi come Falstaff, maschera con cui Bloom chiude il libro, perché lo sente più vicino. A se stesso e a tutti noi. Anche a chi, per ragioni anagrafiche e culturali, sembra destinato a una cultura televisiva, e quindi lontano da tutti i classici. Come Bloom stesso ha detto in un’intervista in occasione del lancio di questo libro, «nulla oscurerà il valore preminente di Dante, Shakespeare o di Milton. Nulla li terrà fuori da ogni nuova generazione che viene su, in America o in Italia o in qualsiasi altro Paese. I giovani lettori, a dispetto di tutti gli impedimenti, a dispetto dello schermo televisivo gigante che li fissa dall’alto e da ogni lato, di tutti i tipi di politiche che vengono scaricati loro addosso, o di tutti i tipi di sensi di colpa sociali irrilevanti, leggeranno. “Scegliete”, disse magnificamente Coleridge, “quel che vi trova”. E, in fin dei conti, saranno Dante e Shakespeare a trovarvi».


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