Attrice, scrittrice, cantante. Scrittrice, cantante, attrice. Puoi invertire l’ordine all’infinito e non cambierà nulla, Saba Anglana sarà sempre tutte e tre le cose insieme. Sarà le sue radici in tre luoghi – Etiopia, Somalia e Italia – e ambasciatrice culturale del mondo nel mondo.
Quattro album, un libro, molti spettacoli teatrali raccontano le terre in cui ha vissuto. Anglana è nata a Mogadiscio, in Somalia, da due genitori che lì erano stranieri (padre italiano e madre etiope). «Sono italo-etiope con cittadinanza e passaporto italiano», racconta. «Mogadiscio negli anni ‘70 era uno straordinario melting pot in cui, per ragioni diverse, erano confluiti moltissimi italiani e moltissimi etiopi. Un bacino vivace di diverse culture che ha dato un imprinting indelebile al mio sguardo sul mondo». Per spiegarlo, va dritta al punto: «Sono nata straniera nella terra in cui è stato seppellito il mio cordone ombelicale. In Africa si dice che dove è seppellito il tuo cordone ombelicale lì è la tua radice: nella mia storia, la radice è da ricostruire. Allora non bastano né i documenti fisici né il gesto rituale a legarti a un luogo: è un percorso che si dipana attraverso la vita quello che ti conduce fino a fare tua una terra». Quando Anglana aveva cinque anni, la sua famiglia fu costretta a lasciare il Paese, stabilendosi prima ad Adis Abeba, capitale dell’Etiopia, e poi a Roma. Non più tardi di una settimana fa, alla presentazione del piano pluriennale della Fondazione Crc a Cuneo, due registi come Gabriele Vacis e Roberto Tarasco l’hanno voluta sul palcoscenico per un monologo dedicato al sentirsi a casa lontano da casa, al sicuro ma fuori dal nido, stranieri nel luogo che abitiamo.
Di fronte a 1600 studenti della scuola secondaria di secondo grado è partita da una serie di domande. Esiste un luogo simile all’origine? Un posto che potremmo chiamare casa, da cui nessuno potrà mai cacciarti e dove nessuno potrà mai chiamarti straniero? E come si costruisce? Ha risposto che si costruisce non con i mattoni e con il cemento, ma con il suono, con la voce. Che cosa rappresenta la voce per lei?
Casa è quel luogo che puoi ricostruire attraverso il racconto e il racconto nel mio caso passa attraverso la voce. Mai avrei creduto che questo mezzo che si è fatto strada nella mia vita diventasse così importante. Dal punto di vista metaforico, la voce è uno strumento libero. In principio c’era il suono: la voce è il primo suono che alla nascita rompe il silenzio, inizia la costruzione di un’identità. Dal punto di vista personale, come artista la voce mi ha permesso di ricostruire quella casa di cui sono stata privata in una lingua imperfetta, infarcita di errori che raccontano la mia geografia spezzettata. Una specie di navicella attraverso cui tornare all’origine, creare ponti tra mondi e popoli. La voce ci tiene insieme, il suono sintetico realizzato dall’intelligenza artificiale ci silenzia. Dobbiamo riprenderci il suono, dare voce e spazio all’umanità.
Nel suo romanzo edito da Sellerio definisce la cittadinanza italiana “La signora Meraviglia”, che poi è anche il titolo del libro. Un modo ironico e anche severo per raccontare un fenomeno che riguarda circa 2,5 milioni di persone. È tutta finzione il racconto alla ricerca della agognata signora Meraviglia o c’è dell’autobiografico?
Il romanzo è basato su storie vere messe in fila attraverso la narrazione. Tra queste, c’è l’avventura tragicomica attraverso la burocrazia per l’ottenimento della cittadinanza italiana di un componente della mia famiglia. Nel libro, io accompagno come Virgilio con Dante nel viaggio attraverso gli uffici e intanto prendo coscienza di che cosa sia l’identità. Un percorso a ritroso verso le motivazioni che ci hanno portato in una condizione così precaria, tra croce e delizia. La cittadinanza italiana è lo strumento per aver accesso a tutta una serie di diritti che prima ti sono negati, ma siamo sicuri quel certificato ti dia la possibilità di entrare in una casa da cui nessuno mai potrà cacciarti o farti sentire straniero? Un documento può determinare l’accettazione di un essere umano dentro una compagine sociale? L’identità non si può basare su una radice fatta di carta, va costruita attraverso l’arte e la filosofia, qualcosa di invisibile che parli direttamente alle coscienze.
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Al fianco di Marco Paolini (Ulisse), è stata a teatro la voce di tutte le figure femminili dell’Odissea nello spettacolo Nel tempo degli dèi. In Abebech, in amarico “Fiore che sboccia”, racconta la vera storia di sua nonna. Perché è importante dare un palcoscenico alle donne?
Nella mia famiglia sono sempre stata circondata dalle donne: sento una forma matrilineare di trasmissione di qualche cosa di molto atavico. Ho sentito come madri tutte le donne che mi hanno accudita perché hanno a che fare con la materia, le mani, le braccia, gli odori, ciò che ti ancora a questo mondo, dà un senso di centratura e di appartenenza. Ho davanti a me una galleria di personaggi femminili che ho incontrato nella mia famiglia e in viaggio.
Attrice, cantante, autrice. In quale di queste parole si riconosce meglio?
Io faccio un po’ fatica con le definizioni, perché sono recinti. Da ibrida nel sangue e per attitudine, io non vedo l’ora di travalicare i confini e andare a sporcarmi le mani. Cerco continui attraversamenti per il gusto di esprimermi in tanti modi. La creatività in generale è una parte di me fondamentale.
Un altro ruolo che le viene attribuito è quello di ambasciatrice culturale.
Come creatura ibrida e multiforme, credo di aver costruito un modo di pensare alla cultura come una specie di passepartout in grado di aprire tutte le porte, una chiave universale alleata con l’assoluto. Questa specie di ambizione trascende i limiti. In fondo, gli ambasciatori sono dei diplomatici che sviluppano una lingua con cui parlare in tanti contesti. Il mio messaggio? Apertura verso l’ignoto e sconfinamento dai propri confini mentali.
Nel suo libro scrive che «ogni vita è figlia di un’esplosione, di un’energia a cui risalire». Può essere questa una strada per l’ascolto e il riconoscimento reciproco tra culture diverse?
Dobbiamo pensarci, tutti, come figli di una stessa esplosione da cui in modo accidentale ci siamo ritrovati calati dentro a culture diverse. Se soltanto riuscissimo a compiere questo slancio di pensiero, ci sentiremmo più vicini, anche al nostro più acerrimo nemico.
In apertura, un ritratto di Saba Anglana fornito dall’intervistata. La fotografia nel testo è della Fondazione Crc
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