«Dalla mia famiglia ho sempre ricevuto le attenzioni che mi servivano ma insieme anche lo stimolo a trovare il mio modo di farcela nel mondo. Credo che questa cosa mi abbia salvata». Simona Spinoglio, 41 anni, ha una malattia genetica neurodegenerativa, l’atrofia muscolare spinale-Sma, in una forma di tipo 2. Libera professionista, sta terminando la specializzazione in psicoanalisi junghiana. «Forse accettare vuol dire questo: stare in continuo dialogo con ciò che si prova rispetto alla patologia», aggiunge.
Perché dice che l’ha salvata dover trovare il modo di farcela nel mondo?
I miei genitori, nonostante facessero tutt’altro nella vita e non avessero nessun tipo di cultura psicologico-pedagogica, mi hanno cresciuta come se la disabilità fosse una parte di me, ma non il tutto di me. Quando ero molto piccola, mi hanno fatto visitare da molti medici per capire perché non raggiungessi le tappe motorie di una bambina della mia età: non sapevano cosa fosse la mia malattia. Avevo una forte debolezza agli altri inferiori, non gattonavo, gli arti superiori erano più deboli. Poi c’è un aspetto molto delicato della mia malattia, che è la difficoltà nella respirazione, si tratta di una patologia con insufficienza respiratoria precoce progressiva. Io sono cresciuta su una carrozzina in un paese molto piccolo, Treville, in provincia di Alessandria. Quando dico molto piccolo voglio dire meno di 300 abitanti, è proprio una micro realtà. Un paese bellissimo sulla punta di una collina, molto fiabesco ma piccolissimo.
Com’è stato vivere in un paese così piccolo, con la sua disabilità?
Sono sempre stata molto fortunata da un punto di vista sociale. Se è vero che in un paese piccolo c’è tutto un diverso sguardo nei confronti delle persone con disabilità, io ho avuto la fortuna di incontrare delle amiche e un contesto che mi hanno sempre fatto sentire esattamente come gli altri. Mia madre e mio padre mi hanno cresciuta lasciando che facessi delle esperienze, anche sbagliando, anche mettendomi nelle condizioni di dover stringere i denti e resistere. Io dico sempre: «Questa è la mia normalità».
Mia madre e mio padre mi hanno cresciuta lasciando che facessi delle esperienze, anche sbagliando, anche mettendomi nelle condizioni di dover stringere i denti e resistere
Quando nasci con una patologia come la mia, che è veramente parte di te, è normale non essere autonomi, anche per andare in bagno, cambiarsi, lavarsi. Sono cresciuta sapendo che questa è la mia normalità, non ho idea come sarebbe essere autonoma. Questo non vuol dire che l’accetti e che vada bene così. Io credo che accettare sia un processo fatto di momenti diversi e ciclici, momenti in cui c’è la rabbia, altri in cui c’è la frustrazione, altri ancora in cui la malattia non è un problema perché la vita ti porta ben altri problemi: il fatto di avere una malattia non ti esonera da tutte le altre difficoltà della vita. Anche adesso, così, dopo 40 anni, ci sono giornate in cui è pesante e altre in cui non ci penso, giornate in cui è frustrante e altre in cui mi faccio una risata. Forse accettare vuol dire questo: stare in continuo dialogo con ciò che si prova rispetto alla patologia.
Quali sono le maggiori difficoltà, nella sua vita?
La mia è una malattia degenerativa, ma il mio peggioramento finora non è stato troppo importante. Oltre a non camminare, muovo un po’ meno le braccia rispetto a quando ero più giovane. Ho iniziato all’età di 30 anni a fare ventilazione notturna, cioè a dormire con una mascherina che mi permette di avere un respiro efficace durante il sonno. Queste sono le difficoltà che mi fanno sentire di più la mia malattia. Anche lavorando in parte con persone con disabilità di vario genere, ringrazio per come la malattia nella mia vita si è manifestata.
Com’è iniziato l’amore per la psicologia?
È molto probabile che il fatto di mettermi in qualche modo al servizio degli altri con il mio lavoro abbia radici nella mia esperienza personale. Avevo solo 13 anni quando ho iniziato a dire di voler fare la psicologa. Non c’erano psicologi in famiglia e io non ero mai andata da uno psicologo. Alle superiori scelsi un liceo a indirizzo psicopedagogico ma poi, quando arrivò il momento di scegliere l’università, da dove vivevo io la facoltà di Psicologia non era comoda. Trasferirmi a Padova o Torino era un problema, per me. Mia madre mi disse che in quel momento non avevano le possibilità di farmi frequentare Psicologia in un’altra città, non poteva lasciare il lavoro per accompagnarmi. Più di 20 anni fa non c’era tutto quello che c’è adesso, rispetto al tema della vita indipendente.
Come ha preso l’impossibilità di studiare psicologia, cioè di realizzare il suo sogno?
Mi sono presa un anno sabbatico, ero molto in crisi, non sapevo cosa fare nella mia vita. Ho fatto un po’ di volontariato in un centro che accoglieva persone migranti, ho lavorato da mio fratello come segretaria, lui ha una azienda che produce vino. Finché ho scoperto che in una città un po’ più vicina, Asti, c’era la facoltà per Educatore professionale. In quel momento era un buon compromesso. Dopo tre anni di studio, ho iniziato a propormi come educatrice. Ma era complicato, nelle comunità un educatore sulla sedia a rotelle non lo prendono, si deve fare un lavoro che è anche molto fisico. Poi mi hanno assunta in un’agenzia per il lavoro, per fare selezione del personale.
Ho vissuto il mobbing, che ai tempi non chiamavo mobbing per cui non l’ho denunciato, però c’erano degli atteggiamenti molto oscuri e poco inclusivi nei miei confronti, al che ho deciso di dare le dimissioni e di dedicarmi a fare l’educatrice. Mi sono un po’ inventata il lavoro, ho scritto dei progetti, uno in particolare che si chiamava Diversi insieme, di educazione all’inclusione all’interno delle scuole. E ho iniziato a portare questo progetto formativo nelle scuole della zona di Casale Monferrato, insieme ad una collega.
Com’è stata quest’esperienza nelle scuole?
Negli istituti di ogni ordine e grado (dalle primarie ai licei) facevo dei laboratori utilizzando la drammatizzazione, la musica, i racconti, le storie e alcune altre tecniche attive per educare all’inclusione. Ho sempre fatto teatro e canto, quindi includevo un po’ tutte le metodologie attive che stavo imparando. Il feedback dei bambini e dei ragazzi era ottimo. È stata un’esperienza arricchente. Un’educatrice che entra in aula scolastica con una sedia a rotelle ha una valenza importante. Per i bambini molto piccoli la differenza, tra me e le altre persone, spesso non c’era. Io andavo con una collega, ero bionda ai tempi e lei mora. La prima domanda che facevamo quando entravamo era: «Che differenza c’è tra me e Marzia?». In una prima elementare una bambina rispose: «Tu sei bionda, lei è mora». E lei camminava, ovviamente. Dopo quest’esperienza, ho continuato a studiare, prima come counselor, poi nel 2022 sono diventata psicologa. Ora mi sto specializzando in Psicoanalisi junghiana.
Dove lavora oggi?
Vivo con mio marito a Casale Monferrato, dove ho uno studio. Lavoro lì per circa metà settimana, gli altri giorni lavoro a Milano. Mi capita di fare progetti, seminari, formazioni in giro per l’Italia, sia in presenza che online. Ricevo, individualmente e in gruppo, come psicologa e psicoterapeuta. Sono al terzo anno di specializzazione, quindi sto iniziando a praticare anche la parte di analisi. Lavoro con metodologie integrate, per cui c’è sempre una parte molto attiva. Nel frattempo ho fatto un percorso di cantoterapia, per cui utilizzo anche la voce e il canto con alcune persone e alcuni gruppi. Lavoro con persone di ogni età, per la maggior parte senza nessun tipo di disabilità. Ho collaborazioni con associazioni che si occupano, per esempio, di persone con malattie oncologiche piuttosto che con la Unione italiana lotta alla distrofia muscolare.
Provo gioia nel dare una testimonianza di come la disabilità non impedisca assolutamente di vivere o di autodeterminarsi
In che modo unisce la cantoterapia alla psicologia?
Una sessione di cantoterapia con uno psicologo è un’esperienza personalizzata, che si adatta alle esigenze di ognuno. Si parte con un colloquio iniziale per capire quali sono gli obiettivi che si vogliono raggiungere, per poi passare a esercizi pratici che possono includere esercizi di respirazione e riscaldamento vocale, vocalizzazioni e improvvisazioni per esplorare le sfumature della propria voce, il canto di canzoni, e tecniche di rilassamento e mindfulness per favorire la consapevolezza del corpo e il rilassamento.
Collabora anche con Famiglie Sma, l’associazione di genitori che hanno figli con la sua stessa malattia?
Per Famiglie Sma faccio dei colloqui individuali e dei gruppi di terapia e seguo alcuni progetti, in questo momento ne seguo uno sulla voce. Quando lavoro con genitori che hanno i figli con la mia stessa patologia, il poter mostrare loro che, anche con una patologia così invalidante e che crea un sacco di limiti e vincoli, si può avere una vita al pari delle altre per quanto riguarda le emozioni, per me è una soddisfazione. Provo gioia nel dare una testimonianza di come la disabilità non impedisca assolutamente di vivere o di autodeterminarsi.
Quali sono le difficoltà legate al suo lavoro?
Le difficoltà che ha, credo, chiunque abbia la partita Iva, in questo momento. Non avere nessun tipo di appoggio nel momento in cui si sta male o si ha da fare per la propria salute, comporta la perdita di soldi. In questo momento sul lavoro la mia più grande difficoltà forse è questa. Mi rendo conto che la mia malattia esige delle cose e a volte io faccio un po’ fatica a mediare tra le richieste dei pazienti, l’amore per il mio lavoro e le attenzioni che chiede il mio corpo. L’affitto dello studio lo devo pagare, ma più che l’aspetto economico per me pesa la responsabilità nei confronti delle persone con cui lavoro. Eppure il mio corpo richiede un po’ più cura rispetto ad un corpo senza Sma, quindi sicuramente questa è la mia difficoltà maggiore. Ho un’assistente personale, che mi aiuta nei miei spostamenti e nella vita quotidiana. Secondo me sono stata molto fortunata.
Perché?
Perché non mi sono mai scontrata con situazioni troppo forti in cui il pregiudizio o la discriminazione mi mettessero davvero da parte. Mi è capitato, qualche volta, quando ero ancora educatrice, di fare un colloquio in comunità e che mi dicessero: «Al massimo possiamo assumerti come segretaria». Forse quella è la cosa peggiore che mi sia capitata, per quanto riguarda la discriminazione. Di recente invece sto provando una nuova sensazione, quella di avere una responsabilità sociale nei confronti di chi viene dopo di me, nei confronti di alcuni pazienti.
Ci spieghi meglio.
Se anni fa, quando sentivo un termine usato in modo inappropriato, pensavo che fosse un problema della persona che lo usava: oggi invece penso che è un problema nostro. Se faccio finta di niente, sono complice. Mi sento di dire, anche ai miei colleghi psicologi, che bisogna imparare ad avere uno sguardo più al passo con i tempi in tema di disabilità, a volte siamo ancora un passo indietro. Credo che sia grave che in questo mondo, ancora oggi, ci sia un occhio così poco abituato alle persone con disabilità. Questo anche per quanto riguarda il tema delle barriere architettoniche.
Mi sento di essere un po’ responsabile della non attenzione nei confronti delle persone con disabilità
Cosa vuole dire, riguardo alle barriere architettoniche?
Su questo tema, la mia modalità è sempre stata: «Fai quello che vuoi, dove puoi». Non avevo voglia di mettere energie in una lotta che non mi portava soddisfazione. Però mi è capitato due mesi fa di essere invitata a cantare in un locale a Milano, mi avevano assicurato la totale accessibilità e invece per entrare c’era un gradino e il palco non era accessibile, non c’era lo scivolo. Cosa ho fatto? Ho cantato sotto il palco. Però poi mi sono detta che io una cosa del genere non la voglio più fare. Ma non tanto per me. Se io avessi avuto 20 anni, non l’avrei vissuta così, sarebbe stato molto frustrante. Mi sento di essere un po’ responsabile della non attenzione nei confronti delle persone con disabilità.
Quali sono le soddisfazioni, nel suo lavoro?
Io credo che ogni volta che c’è un incontro umano con un’altra persona è una soddisfazione. Non mi piace dire che ogni volta che un paziente sta meglio è soddisfacente, perché in realtà non sempre i pazienti stanno meglio. C’è un lungo periodo nel percorso di terapia, in cui bisogna trarre soddisfazione nello stare vicino alla persona con il suo dolore, provando a farsene qualcosa di quella sofferenza, semplicemente ascoltarlo in quel dolore. La mia soddisfazione è quando riesco a far sentire ad un paziente che non è da solo nel processo che sta facendo. Poi, quando sta meglio, c’è una parte di me che è soddisfatta, ma è lui o lei a fare tutto: io posso fare da accompagnatrice, da guida. Per me è una grande soddisfazione il fatto che ho l’agenda piena di pazienti e non ho mai fatto pubblicità, le persone arrivano a me tutte con il passaparola. Un’altra soddisfazione la provo quando faccio formazione e porto un punto di vista diverso.
Perché le piace fare formazione?
Io amo fare formazioni molto attive, esperienziali. Il fatto di portare all’altra persona una visione dell’essere umano più ampia e più profonda, una sacralità del corpo umano indipendentemente da com’è quel corpo, e sentire che questa visione – almeno in parte – arriva per me è una grande soddisfazione.
Questo articolo fa parte di una serie dedicata a “Disabilità & Impresa”. Qui gli articoli già pubblicati:
Non solo collocamento mirato, le persone con disabilità vogliono essere (anche) imprenditori
Imprenditori con disabilità: la sfida di essere più capaci degli altri
Ho messo 40 persone all’opera per facilitare la vita di chi è in carrozzina, come me
Abilismo e pietismo nei miei ciak sono banditi
Foto dell’intervistata
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