Reportage

Con i siriani che tornano a casa: «Il Paese è devastato, ma la rinascita dipende da noi»

Dal giorno della caduta del regime di Bashar al Assad sono rientrati in migliaia. Viaggiano con il passaporto del Paese di cui sono diventati cittadini o con documenti che attestano il loro status di rifugiati o richiedenti asilo. Le loro voci e i loro sogni

di Asmae Dachan

Passata l’ultima frontiera il conducente dell’autobus si volta perso i passeggeri: «Bentornati in Siria. Adesso siete in aman, sicurezza. Nessuno vi chiederà tangenti e nessuno vi umilierà. Siete tornati nella Siria libera da Assad, adesso è tutto diverso». Dal buco sul parabrezza entra aria gelida, ma l’atmosfera a bordo è calda. Si scioglie la tensione, partono applausi e canti. Donne, uomini, prevalentemente giovani, ma ci sono anche bambini tra i siriani che tornano nel Paese attraversando la frontiera di terra che unisce la loro Patria alla Giordania. 

Dall’8 dicembre 2024, dal giorno della caduta del regime di Bashar al Assad, sono migliaia i siriani che hanno fatto rientro a casa. Secondo le Nazioni Unite solo dalla Giordania, Turchia e Libano nel primo mese sono rientrate oltre 125mila persone. Alcune persone mancano da tredici anni, per loro è la prima volta dall’inizio delle violenze. Altri vanno in avanscoperta, vogliono vedere in che condizioni sono le loro dimore, se ci sono i margini per un rientro. C’è chi è stato costretto all’esilio e vuole riabbracciare la famiglia dopo anni di separazione forzata. Tutti confessano di aver subito umiliazioni e offese alle frontiere, sia quelle terrestri, sia in aeroporto, da parte dei giordani, poliziotti e mukhabarat, servizi segreti.

I siriani in diaspora

Essere siriani in diaspora non è stato facile per nessuno. Discriminazioni, episodi razzisti, povertà e precarietà sono stati una costante. I rifugiati, inoltre, hanno anche pagato per i crimini commessi dal regime di Assad come la vendita di captagon, la droga sintetica diventata il business numero uno per Damasco. Le frontiere, in particolare quelle terrestri, sono state crocevia dei trafficanti che portavano gli stupefacenti nei Paesi limitrofi e nel Golfo. Per questo i controlli sui passeggeri siriani sono diventati estremamente minuziosi, ma anche il trattamento delle persone è diventato molto duro. «Ormai non importa, torniamo nella nostra terra e nessuno potrà più umiliarci», racconta Abu Amjad, sessantenne che è fuggito con la famiglia da Harasta, alla periferia di Damasco, nel 2012. «In Giordania siamo stati trattati come fratelli dalla gente comune, ma non dai soldati, che ci hanno considerato alla stregua di criminali, solo perché rifugiati. So che il nostro quartiere è stato raso al suolo, ho visto alcune foto, ma voglio capire se e come poter riportare qui la famiglia. Nessuno vuole vivere da profugo e io voglio morire qui a casa». Abu Amjad ha tre figlie femmine, tutte sposate e già madri. «I nipoti dicono che non vogliono andare in Siria, andare e non tornare, perché loro la Siria non l’hanno mai vista. In Giordania hanno gli amici, le scuole e non sono felici di lasciare tutto per quello che considerano un Paese sconosciuto, di cui hanno sentito parlare solo in riferimento alla guerra, al dolore, all’esilio». 

La giornalista Asmae Dachan con Abu Amjad ad Homs

Tra coloro che sono tornati in Siria attraverso la frontiera giordana sono in molti quelli arrivati all’aeroporto di Amman dall’Europa, dagli Stati Uniti e anche da altre nazioni arabe. Viaggiano con il passaporto del Paese di cui sono diventati cittadini o con documenti che attestano il loro status di rifugiati o richiedenti asilo. L’attività dell’aeroporto di Damasco, ripresa a gennaio dopo anni di stallo, sta favorendo gli arrivi e le partenze. I voli da e per Istanbul e Doha sono presi d’assalto ed è stato annunciato l’avvio di altre rotte. Nizar Kharrat è un uomo d’affari e di cultura che torna in Siria dopo tredici anni. Sul cappello una spilletta con la bandiera siriana dell’indipendenza, quella che sventola ovunque dall’8 ottobre. «Ho spostato le mie attività nel Golfo, ma appena è caduto il regime sono voluto tornare. La Siria è devastata, il settore industriale in ginocchio, l’economia disastrata, ma proprio per questo dobbiamo rientrare tutti e investire nel nostro Paese, ora da uomini liberi, senza le minacce di estorsione e senza dover corrompere nessuno per lavorare. In questi anni di esilio ho coltivato la mia passione per la scrittura, dedicandomi al racconto delle sofferenze del nostro popolo. È ora che uniamo le nostre forze per sollevare il Paese». Kharrat racconta di essere dovuto fuggire da Damasco perché, come altri manager e imprenditori, ha subito estorsioni e veniva continuamente minacciato. La sua casa è stata danneggiata, ma è ancora in piedi, può essere ristrutturata. «Non c’è nulla di peggiore per un popolo che ha la nostra storia e i nostri valori che trovarsi oppresso. Adesso c’è povertà ovunque, la Lira siriana non vale più nulla e le sanzioni bloccano molti settori, per non parlare della corrente elettrica e dell’acqua che arrivano a singhiozzo. Non si può pensare di far ripartire l’economia se non si eliminano le sanzioni, se l’azione delle banche è limitata e l’import-export è soggetto a mille cavilli. Dall’estero serve l’impegno di tutti gli imprenditori siriani affinché favoriscano il rientro dei capitali, ma anche i politici devono impegnarsi per favorire la ripresa di tutti i settori vitali, economia, sicurezza, trasporti. Servono persone competenti e affidabili, per questo la transizione deve procedere velocemente e i militari devono ritirarsi in favore dei civili». 

Gli sfollati interni

Tra molte persone che rientrano dall’estero, gocce nel mare se si pensa ai sette milioni e mezzo di siriani che si sono rifugiati prevalentemente in Paesi limitrofi, sono altrettanti gli sfollati interni che sognano di rientrare nelle proprie dimore. «Il regime è caduto, ma cosa abbiamo da festeggiare? I bombardamenti hanno ucciso mia moglie e i miei due figli, mio fratello e mia cognata, e loro figlio è ancora disperso. Non ho più una casa, sono rimasto nella periferia di Damasco e poi sono tornato qui». L’uomo, settant’anni, originario di Homs, è seduto su una pila di mattoni su cui ha adagiato delle coperte. Il palazzo è tutto lesionato, e in quel piano terra non ci sono finestre, né porte, né muri, solo colonne su cui sono visibili i segni di un incendio. È come un salotto aperto sulla strada. In mano un tasbih, un rosario islamico, sul volto i segni di un dolore che difficilmente le parole possono descrivere. «Sono rimasto solo, l’intero quartiere di Khaldiya è in macerie, non è tornato quasi nessuno. Questa non è pace, è come guardare la morte da sopravvissuti e dover aspettare il proprio turno, desiderando che arrivi presto». Alcuni palazzi sono completamente devastati, altri sono pericolanti.

Hasan al Asmar, giornalista siriano

Hasan al Asmar, un giornalista locale, porta colleghi della stampa internazionale a visitare i quartieri di Homs devastati da anni di bombardamento, dove la ricostruzione sembra ancora lontana. Si ferma davanti a una bouganville che in mezzo a quelle macerie e quell’orrore è rimasta viva. «Vengo sempre qui quando ho bisogno di speranza. I colori di questa pianta mi danno gioia, mi aiutano a ricordare che non esiste solo il grigio, il colore che ho visto di più negli ultimi anni, ma esistono altre tinte, così come può esistere un’alternativa alla vita sotto la guerra che abbiamo conosciuto negli ultimi quattordici anni. Io e la mia famiglia siamo sfollati nel 2011, ero un ragazzino, ho perso la mia spensieratezza, adesso però è il momento di ricominciare». 

Siria, periferia di Damasco. AP Photo/Mosa’ab Elshamy/LaPresse

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